mercoledì 3 luglio 2013

Magia di Colori

Colori che fluttuano nell’immenso mare azzurro,
gioiosi volti di ragazzi che giocano sulla spiaggia,
il verde delle piante scintilla fulgente a coronare il paesaggio,
il tuo sorriso illumina ogni cosa di immenso
e l’artista beato si lascia cullare dalle forme dei suoi dipinti
nell’estasi del suo sé interiore.
E’ la vita che manifesta il suo candore
e ci culla nel mondo degli adolescenti
che innocenti afferrano il suo volto d’amore.

di Jayan Walter
poesia dedicata al Maestro Ciro D’Alessio, mio amico e grande artista


mercoledì 22 maggio 2013

Vorrei poterti racchiudere tutto in una sola poesia,


Vorrei poterti racchiudere tutto in una sola poesia,
per poterti poi mettere tranquillo in un cassetto
e starmene finalmente in pace

ma mi sfuggi per mille falle,
inafferrabile acqua spumosa.

Esplodi da ogni lato come una scatola impazzita
di fuochi d'artificio tra mani impotenti,
 mi accechi, mi travolgi, mi confondi in un vortice
scombussolante di passione inesprimibile.

Ciro D'Alessio

mercoledì 24 aprile 2013

L'angoscia della perdita del mondo

Le mediazioni, i rappresentanti, i funzionari,
i mezzi di scambio,
le metafore, i simboli, i concetti...

Per favore, un Mondo più umano! 
Più concreto, più diretto!

Ciro D'Alessio

 

domenica 3 marzo 2013

Contesto, decontesto, arte.

http://www.equilibriarte.net/cirodalessio/blog/contestualizzazione-e-decontestualizzazione-in-arte

CONTESTUALIZZAZIONE E DECONTESTUALIZZAZIONE IN ARTE

Uno degli sviluppi dell’arte novecentesca, un vero e proprio filo conduttore che ci permette di raccontarne la storia, è il progressivo perdersi del “contesto” all’interno della rappresentazione, ed un suo recupero all’esterno di essa.
Chiariamo il concetto con qualche esempio; Nell’arte prenovecentesca ogni soggetto, ogni figura dipinta, era inserita in uno spazio, in un ambiente, in una luce interna alla rappresentazione. L’ opera cioè non si limitava a rappresentare il soggetto isolandolo dal contesto, ma lo inseriva in un ambiente. Questa possiamo dire che è una delle caratteristice principali della pittura moderna, quella che va dal rinascimento ai primi del novecento. Tanto è che questo aspetto è in stretta relazione con la prospettiva, che fu scoperta e studiata proprio per l’ esigenza di inserire la figura in un contesto ambientale, così come esse ci appare sempre nella realtà del vedere quotidiano, da un punto di vista umano e personale, e non come sarebbero in sé, da un presunto punto di vista sovraumano ed impersonale.
Nel medioevo la prospettiva non era ignorata solo per incapacità tecnica; sarebbe una sottovalutazione troppo superficiale di un era che ha prodotto in campi quali poesia, filosofia, architettura, vette irraggiungibili. Semplicemente ai medievali la prospettiva interessava poco, così come interessava poco lo studio sperimentale della natura e la scienza, perché non era il punto di vista umano e la natura terrena ad attirare l’interesse degli ingegni di quell’epoca, ma il punto di vista divino e lo studio della teologia. Ecco che spesso le figure erano decontestualizzate o contornate da arabeschi o sfondi stellati, quasi si trovassero in uno spazio diverso da quello terreno, in uno spazio metafisico.
In compenso queste opere erano sempre inserite in contesti spaziali all’interno dei quali erano da considerarsi come un elemento inseparabile dal contesto; affreschi interni a chiese, etc.
La novità della modernità è che l’opera ha un suo spazio terreno, uno sguardo all’interno del quale tutte le sue figure si dispongono in un ordine prospettico, e con questo suo spazio interno essa prende autonomia dallo spazio esterno; diventa asportabile, ed esponibile in ogni luogo, in quanto non è un oggetto in uno spazio, ma essa stesso creazione di un suo spazio della rappresentazione. Di qui anche la cornice, che aveva il compito di dare compiutezza a questo sguardo, che non c’ era nel medioevo e che torna a sparire nell’arte novecentesca. La somiglianza tra arte del novecento e arte medioevale è stata più volte notata, ora voglio sottolineare anche la grande affinità filosofica tra le due epoche; il più influente filosofo del novecento, heidegger, riprende in qualche modo l’ antropologia cristiana, semplicemente privando l’ uomo di dio; Il novecento è una specie di medioevo senza dio.
Veniamo ora all’ aspetto artistico.: ricordo una riflessione di Sgarbi in cui diceva che l’arte rinascimentale e prerinascimentale rappresentano secondo un punto di vista ideale, quella da Caravaggio in poi, da un punto di vista umano, quella novecentesca da un punto di vista dell’inconscio e dell’interiorità; quindi le cose come sono in sé, le cose come sono nel mondo, le cose come sono nell’interiorità del soggetto. Ovviamente ci sarebbe molto da discutere su questo schema, ma esso ha il merito di cogliere un aspetto saliente; nel novecento si ripassa da un interesse per le cose e le persone inserite nel mondo e l’ambiente esterno e reale, ad un interesse per come loro si presentano all’interno dell’anima, questa volta non più l’anima divina, ma l’anima particolare del soggetto.
Questo significa che, di nuovo, oggetti e figure vengono decontestualizzate dallo spazio reale, ed inserite in uno spazio altro, oppure presentate isolate da ogni spazio. Questo significa decontestualizzare le figure; decontestualizzare o astrarre. L’ arte del novecento è tutta astratta, anche quando è figurativa, proprio per questa sua tendenza ad isolare le figure dallo spazio o ad inserirle in spazi immaginari, che per essenza sono astratti, dato che l’immaginazione, se non si foggia sul reale, è solo indice della separatezza angosciante del soggetto dal reale, cioè della sua astrattezza. Un soggetto isolato, infatti, è un soggetto astratto, dato che nei fatti ogni soggetto è sempre inserito in un mondo ed inseparabile da esso..
Quello che è da notare, e che più l’opera perde quello che è il suo spazio interno della rappresentazione, più ha bisogno di porsi come elemento dello spazio reale; di qui la dipendenza sempre più stretta dall’archittettura, proprio come nel medioevo.
I musei d’arte contemporanea, sono sempre più camere decorate e arredate in maniera particolare, cioè spazi reali riempiti con oggetti e colori, e sempre meno luoghi in cui vengono raccolte rappresentazione di spazi, cioè rotture dello spazio oggettivo, finestre di trascendenza.
Perché un’opera moderna è uno sguardo che apre uno spazio diverso da quello oggettivo, ma comunque uno sguardo, mentre l’opera contemporanea ha perso volutamente sempre più quest’aspetto, per aspirare sempre più a farsi oggetto tra gli oggetti dello spazio reale, che a questo punto diventa unico, oggettivo, intascendibile, angosciante e soffocante.

Anche i colori si fanno astratti, all’ attenzione alla luce ed alla tonalità, si passa all’ apprzzamento del colore puro e forte. Ma il colore puro e forte è un colore astratto, che esiste o nella nostra mente, o nei nostri tubetti di colori artificiali; i colori si giustappongono sempre più l’ uno all’ altro e si separano, si ipersaturano, laddove nell’ arte prenovecentesca si armonizzavano, si disponevano in scale cromatiche e tonali, così come di fatto si armonizzano nella visione concreta.

Lo stesso discorso vale per le forme, e per ogni altro aspetto della pittura. Ovunque la stessa tendenza alla decontestualizzazione, all’ isolamento, all’ astrazione.
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commenti

Danilo Verticelli
7 marzo 2008 12:51
"L’ arte del novecento è tutta astratta, anche quando è figurativa, proprio per questa sua tendenza ad isolare le figure dallo spazio o ad inserirle in spazi immaginari, che per essenza sono astratti, dato che l’immaginazione, se non si foggia sul reale, è solo indice della separatezza angosciante del soggetto dal reale, cioè della sua astrattezza"

Sono perfettamente d'accordo. Soprattuto sul fatto che l'arte contemporanea astrae il soggetto dall'oggettività reale per traslarlo in una dimensione che non è solo figurata ma sopratutto concettuale.
Si spezza quindi la catena rappresentativa del qualcosa, nel momento in cui quel qualcosa diventa "altro" e si pone "altrove" pur rimanendo in fondo se stesso. La trasformazione non è più effettuata dall'artista sulla tela (surrealismo, impressionismo, ecc) ma viene demandata al fruitore (nella sua più assoluta anarchia) attraverso la decontestualizzazione sia del soggetto elaborato, sia del supporto utilizzato, sia del luogo in cui viene mostrata.
L'Arte diventa quindi di tutti, non nell'accezione commerciale, ma nella possibilità dell'ingenuo e del pastore di poter trarre emozioni, significati, impulsi da ciò che stanno vivendo di fronte all'opera contemporanea.
La rinuncia alla "finestra" a favore del "frame", come proiezione di un percorso creativo solo momentaneamente depositato su quel muro o in quello spazio, ma coerente e continuativo nell'idea che si fa Arte.

Ciro D' Alessio
7 marzo 2008 13:03
Grazie mille Danilo, per aver prestato attenzione alle mie elucubrazioni!
Diciamo che condividiamo sostanzialmente l' analisi, ma poi divergiamo sulla sua valutazione.
Tu, mi pare, vivi con entusiamo gli sviluppi novecenteschi.
Io credo, ivece, che la riduzione dell' arte a frammento della realtà, sia stato uno sviluppo storico coerente, ma comunque una perdita per l' arte figurativa. La perdita della sua capacità di essere rappresentazione consapevolmente distinta e diversa dal reale, del quale invece l' arte "frame" si compiace di essere frammento.
Ma credo che si possa riuescire a creare una vera rottura dell'uidentità del reale, cioè una vera alterità, sulla quale poi fare leva per un eventuale cambiamento del reale stesso,
solo ripristinando la retta distinzione tra reale e rappresentazione.

Danilo Verticelli
7 marzo 2008 13:15
Ma se mi dici che anche l'arte figurativa è astrazione, che perdita pensi di aver avuto? Della semplice rappresentazione realistica? della Metafisica dei corpi? Dei cieli stellati o doarti delle icone?
Io penso l'arte come emanazione della realtà (è pur sempre un fatto umano) e quindi l'arte contemporanea non può che essere emanazione della realtà odierna che è fatta di "frame" enon di finestre. Chi sta più alla finestra a vedere passare il vicino?
L'arte figurativa, credo, debba oggi "figurare" non più le forme, ma i frame, le situazioni, il tempo. Non è una rinuncia allo spirito figurativo che è quello di adottare simboli omogenei alla realtà (corpi, volti, oggetti, ecc), è solo una modifica di concettualità nell'applicare quei simboli, modificati, estraniati, stravolti, ad una nuova sintassi che rimane però pur sempre figurativa. Una sorta di astrazione del figurato che adotti simboli noti ma che evada in altre forme comunicative ed altrove.
A me sembra un progresso delfigurativo, altro che rinuncia.

Ciro D' Alessio
7 marzo 2008 14:17
intendevo altro.
Il figurativo contemporaneo estrapola le figure dal contesto in cui si presentano, in questo senso le astrae.
E' la perdità del contesto, che è appunto il limite, ma anche la definizione e l' "altro" del soggetto, che va perso nel figurativo contemporaneo.
Esempio; l' omino di haring non ha uno sfondo all' interno del quale si compenetra, quindi è una specie di "in", simbolico quanto si vuole, ma "in".
I mangiatori di patate di Van Gogh o i canottieri di Renoir stanno, invece, inseriti in un ambiente concreto, quindi non sono simbolo dell' essenza umana, metafisica, ma rappresentazioni dei uomini concreti nel loro ambiente, perché l' uomo concreto è sempre in un ambiente.
Quando una cosa si astrae dal suo contesto, si ipostatizza, e questa è metafisica.
Quando invece la si vede all' interno del tutto concreto di cui è parte, la si relativizza.
I frame dell' arte contemporanea si presentano come ipostasi, cioè come essenze separate, cose in, proprio perché non inserite in uno ambiente che le comprenda, ed in questo somigliano ai santi medioevali incastonati in cilei metafisici.
Mentre le figure dell' arte ottocentesca, ad esempio, erano solo una parte dell' intera composizione, una parte di un tutto, un vero "frame", consapevole di essere tale e senza pretesa all' ipostasi.

Ciro D' Alessio
7 marzo 2008 14:20
Cioè siamo daccordo che oggi il figurativo deve occuparsi del frame e non di essenze metafisiche.
Ma io credo che il frame è tale se lo si inserisce in un contesto di cui è appunto frammento.
ma se lo presenti da solo, allora non è più frammento, ma diventa un qualcosa di sciolto dal suo ambinete, cioè, appunto, di assoluto; un ipostasi.

Danilo Verticelli
7 marzo 2008 14:35
...è vero. I frame devono essere inseriri in un contesto che è, come nel mio caso, un progetto omogeneo in cui i vari frame dialogano. Il contesto si ri-relativizza quindi non in senso iperrealista (il fiume dei canottieri) ma in senso concettuale, come luogo invisibile ma cosciente del progetto che si propone. Ripeto, la perdita del contesto non è una perdita in senso stretto, perché i canottieri su un fiume altro non possono rappresentare che dei vogatori. I canottieri su un fondo bianco possono valere ben altri simboli (forzati o no) e quindi la figurazione "aiuta" il fruitore ad entrare più facilmente nel concetto, nell'idea, che sono elementi fondamentali dell'arte contemporanea.
Tu fai delle belle cose a prima vista contestualizzate ma a ben vedere completamente astruse da certa figurazione descrittiva. Le tue figure sono come ritagliate, gli oggetti fermi ma in movimento, la solitudine dei tuoi soggetti rivela un "altrove" che la semplice contestualizzazione non vorrebbe dire, ma che per forza di cose trasla in tempi e luoghi che non sono lo sfondo contestuale dei tuoi soggetti, ma traggono da quel paesaggio la dinamica per recarsi laddove tu vuoi inconsciamente che si vada. O consciamente, non so. Il tuo cavallo messo di traverso è fermo. La contestualizzazione, in quanto rapporto con il soggetto, è inutile. Puoi ritagliare l'animale e attaccarlo su un fondo bianco o fucsia che l'idea non cambia. Il bimbo gioca o pesca, ma il movimento è un frame pur congelato. Ricordi Hopper, nella fissità dinamica dei movimenti e rimandi ad altro pur dipingendo scene assolutamente reali e contestualizzate.
Proprio tu parli di contesto? Proprio tu che sei il primo a rinnegarlo?

p.s.: se mi rispondi clicca su rispondi, altrimenti non so che l'hai fatto...

Ciro D' Alessio
7 marzo 2008 14:43
ok I contesti possone essere concettuali oltre che reali.
Hai visto nei miei lavori cose che francamante non avevo mai pensato di vederci, ma mi va bene, perché il bello dell' arte è che è una comunicazione imperfetta e quindi una più compiuta comunicazione, una comunicazione dove nascono idee e stimoli nuovi.
Francamente tra i contesti concettuali ed i contesti reali, preferisco questi ultimi, perché ritengo che il vero "altro" non siano il pensiero o il concetto, ma il mondo reale ed irriducibile e gli altrettanto irriducibili uominoi concreti che lo abitano; da questo punto di vista il mio riferimento filosofico è Totalità ed infinito di Immanuel Levìnas.

Danilo Verticelli
7 marzo 2008 14:51
il mio invece è La Verità in Pittura, di jacques derrida...eheheh

Ciro D' Alessio
7 marzo 2008 14:55
ah bene
derridà è stato un grande ammiratore ed allievo di Levinas, mi fa piacere.
Senti tempo fa misi un blog che si chiamava la pittura e la differenza, dedicato proprio a Derridà, se ti interessa vallo a leggere, dovresti trovarlo tra i miei blog più vecchi.

Ciro D' Alessio
7 marzo 2008 15:03
Sai "la verità in pittura" l' ho acquistato l' anno scorso, ma non l' ho ancora letto, appena lo faccio ne discutiamo!

Monica Lume utente autodisattivato
8 marzo 2008 10:38
Leggerò il libro di Derridà.
Ho letto la discussione e l'ho trovata di grande interesse.
Mi sento più vicina all'idea di Danilo.

Ciro D' Alessio
8 marzo 2008 10:40
Si , adesso ho il libro qui davanti a me, salterò il primo capitolo, che semmai leggerò alla fine, e comincerò dal secondo!

Ciro D' Alessio
8 marzo 2008 10:41
Poi aprimao un Blog dedicato al libro, e ne discutiamo in tre! mi sembra una buona idea!

Ciro D' Alessio
9 marzo 2008 09:21
" Ripeto, la perdita del contesto non è una perdita in senso stretto, perché i canottieri su un fiume altro non possono rappresentare che dei vogatori. I canottieri su un fondo bianco possono valere ben altri simboli (forzati o no) e quindi la figurazione "aiuta" il fruitore ad entrare più facilmente nel concetto, nell'idea, che sono elementi fondamentali dell'arte contemporanea"

E' proprio questo Danilo il punto su cui divergiamo; scusa il ritardo della risposta, ma sai il pensiero come funziona: lavora piano come un tarlo a creare cunicoli e connessioni ed ha bisogno dei suoi tempi di decantazione.

Il tratto caratteristico dell' arte contemporanea è proprio quello di aver dimenticato i "semplici" vigatori, a favore dei vogatori in quanto simbolo di qualcos' altro.
Come a dire, il reale non vale nulla, ciò che interessa è solo il simbolo.
Ma cos' è simbolo?
Simbolo è ciò che rimada ad altro; è segno e metafora di altro.
L' arte contemporanea rivela, nel suo prediligere il simbolo alla realtà, il suo carattere religioso, di fuga dal mondo.
Quì mi ritorna in mente anche la questione dibattutta sul tuo blog tra valore d' uso e valore di scambio.
In arte come in economia oggi non ha valore l' oggetto nella sua realtà materiale, concreta, fruibile all' uomo in quanto essere sensibile, ma ciò che esso "rappresenta" sia in termini simbolici, che in termini di valore di scambio, cioè in termini economici.
In entrambi i processi il contenuto reale e sensibile viene risucchiato in qualcosa di astratto e di rappresentativo.
La Rappresentazione astratta sembra essere stato il destino del Novecento; i parlamenti che pretendono di rappresentare le volonta della maggioranza dei cittadini, il prezzo che pretenderebbe di rappresentare il valore di una maerce, il concetto scientifico che pretenderebbe di esaurire la realtà di una ente individuale, la rappresentazione simbolica in arte che pretenderebbe di essere più interessante della realtà concreta.
In questo l' arte contemporanea si dimostra appieno figlia del suo tempo; dell' era del capitalismo. Ha voglia a dimenarsi ed a fare l' alternativa, finché non recuopererà un contatto colla realtà concreta e sensibile, avrà le armi spuntate contro lo stesso, perché ne ha fatti propri i meccanismi più profondi.
Il corpo concreto, con i suoi dolori , la sua sofferenza, ma anche le sue gioie, sono il vero "altro" rispetto alla realtà tutta simbolica ed astratta del mondo in cui viviamo.
Ecco che un i canottieri di Renoir mi paiono più rivoluzionari, perché ci mettono in contatto con questo mondo sensibile che da ogni parte pretende di essere superato oggi, che non qualsiasi opera novecentesca.
L' arte non esprime il pensiero; il pensiero è solo un modo astratto e derivato di rapportarsi al mondo ed al reale.
L' arte esprime appunto il nostro modo profondo di rapportarci ad esso; e nel novecento il rapporto uomo-mondo è stato un rapporto di fuga, di rifiuto, si è preferito un astratto mondo di simboli e valori di scambio, e concetti, al concreto mondo fisico e materiale, con la sua ricchezza irriducibile e forse, quindi, insopportabile per noi uomini di oggi, col suo dolore e la sua morte, forse proprio per sfuggire ai quali si preferisce rifuggiarsi in un mondo di simboli.
Ma in un mondo di simboli, non si rifugge solo il dolore e la morte, ma anche la gioia a la vita.
Insomma il vero "altro" non è il pensiero o il concetto, anzi questi si caratterizzano proprio per il fatto che assimilano l' altro al sé; concetto non significa altro che cum-coepere, prendere assieme, al di là delle differenze. Socrate e Platone, che per primi rifletterono sul concetto e l' idea, lo caratterizzano proprio in questi termini; il concetto o l' idea di una cosa espime l' essenza comune tra tutte le cose che portano quel nome: la cavallinità esprime l' essanza in comune che hanno tutti i cavalli.
Ecco che il pensiero ed il concetto funzionano sul principio dell' esclusione delle differenze; queste appartengono ai singoli individui, che vengono snobbati da paltone proprio perché irriducibili all' universale.
La differenza appartiene agli individui; Levinas la colloca sul volto dell' altro; questo è il luogo di epifania dell' altro.
Dussel, che rilegge il socialismo in chiave levinnassiana, lo colloca nel lavoro vivo irriducibile al lavoro morto.

Io, sulla loro scia e su quella della tradizione italiana di Pareyson, Timpanaro, Colletti...etc, nella natura sensibile dell' uomo, che comprende dunque anche il suo ambiente.

Diverso è il caso di Derridà, invece, che sembra porre la differenza nell' assenza; ma di questo ne discuteremo a suo tempo, dopo che avrò letto "verità in pittura".

Monica Lume utente autodisattivato
9 marzo 2008 10:02
Lo comprerò domani

Ciro D' Alessio
9 marzo 2008 10:04
Cmq è un libro tosto che richiede pazienza ed un approccio tutto particolare, come sempre in derridà

Danilo Verticelli
10 marzo 2008 15:27
...e infatti è sull'assenza, o meglio, sulla presenza dell'assenza, che si fonda il postmodernismo ermeneutico. Derrida non può essere considerato un "costruttivo" ma un de-costruttivo in quanto de-riva la costituzione del pensiero critico dall'osservazione "laterale" dei contesti concettuali, arrivando a stravolgere completamente i sensi percepiti dei testi scritti. La scrittura e il linguaggio, con prevalenza del linguaggio in quanto la scrittura si perde nella "differenza" o meglio nella "differance" come dice lui.
E' un testo criptico e scritto in modo che ogni volta che hai il coraggio di metterci su gli occhi, percepisci sensi diversi da ciò che leggi e quindi è esempio stesso dell'impossibilità di comunicare in modo univoco all'interno di sistemi di riferimento lessicali determinati.
Ritornando ai nostri vogatori è in effetti come dici tu.
Ma, mentre io lo vedo come passo avanti nella dialettica figurativa, tu lo vedi come perdita dell'essenza della figurazione arcaica.
In realtà è come dici tu: la figura perde il proprio ruolo descrittivo per assumerne altri. In un certo senso nega il motivo stesso per cui è nata diventando mero strumento speculativo per la descrizione di concetti e metafore (metonimie alora) che infine nulla hano a che fare (forse) con il soggetto fedelmente o no rappresentato.
E' vero. ma la domanda è: c'è bisogno ancora di una figurazione "descrittiva" nel momento in cui esiste la fotografia? Non a caso la neofigurazione di Cezanne, van Gogh, ma anche Picasso, Modigliani e poi a venire in qua, nasce contemporaneamente allo sviluppo della tecnica fotografica. In un certo senso si libera del fardello di dover per forza di cose rappresentare "canottieri e basta" per poter aspirare ad un diverso modo di utilizzare il soggetto ripreso. Perché considerarla una perdita? E perché mai dobbiamo pensare che l'una cosa abbia offuscato l'altra? Nessuno ha mai imposto ad alcunchì (specialmente nel XX secolo) di adottare simboli figurativi per esprimere metafore concettuali. E' venuto spontaneo, come spontanea evoluzione di un sistema pittorico ormai saturo. La descrizione del reale poi, ha continuato sempre ad esistere, anche negli iperrealisti, e non è considerata affatto meno degna del figurativo "astratto" o "concettuale". Perché mai? Ma perché mai pensare però che la rappresentazione reale e iperreale non siano essi stessi modi di fare concetto invece che "semplici" documenti descrittivi? Quando dipingi la munnezza così come la vedi, come una finestra aperta sui cassonetti, non fai anche tu un'operazione concettuale "mascherata" da testimonianza storica? la scelta stessa del soggetto è già un universo concettuale "assente" ma presente nella figurazione conseguente. Anche tu in fondo utilizzi la realtà per dire qualcosa d'altro, che è quindi altrove. Perché la munnezza e non un fiore o le onde del mare o i canottieri della Posillipo?
La storia dell'immagine non ha bisogno dei nostri quadri per testimonare i drammi. Ha le foto, i filmati i videotelefonini e quanto altro. YouTube assolve al compito di descrivere i canottieri che sudano e i muscoli che gonfiano. L'artista del duemila deve andare oltre. Purtroppo questo ci è richiesto. E l'andare altrove è sfociato nell'astrattismo.
Ma per noi poveri rappresentatori di realtà, il ruolo disegnatoci dall'evoluzione è quello ormai di "interpretazione" della realtà e forse di denuncia della stessa, attraverso le nostre idee e le nostre culture.
Poi, c'è chi continua a dipingere fiori, uccelli, zuppiere, visi e altro, cercando di farli il più possibile aderenti alla visualtà percepita.
Non è ciò che intendo per Arte. Ma è un mio umile pensiero che tocca solo me....

Ciro D' Alessio
12 marzo 2008 20:39
Su quello che dici sono sostanzialmente d'accordo, Danilo; i miei pittori di riferimento sono proprio quelli che cominciarono a prendere le distanze dal figurativo meramente descrittivo...
Quanto al fatto che anche nel figurativo ci sia pensiero, scelta, "politica", te lo scrissi io stesso in un tuo blog dove discutevi con Monica su tale questione.
Io non credo però che la fotografia o il video possano in tutto sostituire la pittura.
La pittura è tutt' altra cosa.
Essa esprime un rapporto che il soggetto ha col reale che la fotografia non può esprimere.
Tu te lo immagini un Van Gogh fotografo?
Ma anche un Renoir fotografo è impossibile.
Ogni medium ha i suoi caratteri specifici, come diceva mc Luhan, ed è insostituibile da parte di altri.
Piuttosto io collegherei il discorso decostuttivo che derridà avvia per la filosofia alla stotria dell' arte del novecento.
Questa è stata un grande smontatura di tutti gli aspetti dell' arte "classica". Ed è pre questo che il figurativo è stato messo da parte, ma non perché esso avesse esaurito la sua forza espressiva.
Difatto la pittura figurativa è continuata, anche se non ha catalizzato l' attenzione come invece facevano altre forme che man mano nascevano nel corso del secolo.
Però il pensiero postmoderno ci insegna a dubitare anche dello storicismo e dunque a rivedere gli sviluppi storici ed a recuperare ciò che la storia sembra aver trascurato.
In tal senso mi pare esemplare la poesia di montale sulla storia.
Quanto al libro di derridà sullaa verità in pittura ho letto i primi due capitoli, interessantissimi.
Ho pensato di comiciare a sciverne qulacosa su di un blog capitolo9 per capitolo, cos' ne possiamo discutere.
Cmq anche se divergiamo è un gran piacere discutere con te, perché sei rispettoso delle idee altrui e ti concentri sulle questioni e non sull' esibizione del come invece purtroppo spesso accade!

la metafisica del nuovo


http://www.equilibriarte.net/cirodalessio/blog/la-metafisica-del-nuovo-e-la-confusione-tra-arte-e-scienza.

la metafisica del nuovo e la confusione tra arte e scienza.



Ieri mi venne in mentre una scena vissuta all’epoca del liceo.
Il nostro professore stava parlando della musica classica ed uno studente gli disse che era ormai vecchia, al che il prof si giustificò dicendo che ad ogni ascolto gli procurava una nuova emozione.
Questa scena mi è ritornata in mente proprio mentre ascoltavo un pezzo di musica classica e rivivevo con la stessa intensità l’emozione che mi aveva dato altre volte.
Allora pensai tra me e me; perché il prof sentì il bisogno di giustificare il riascolto della musica dicendo che procurava nuove emozioni? Non bastava dire che ogni volta procura emozioni?
Poi che siano nuove o sempre le stesse che importa?
Perché quest’enfasi del nuovo? Quasi che solo il nuovo potesse legittimare in qualche modo l’esperienza estetica?
Beh, che gli ultimi due secoli e mezzo, siano stati i secoli dello storicismo, in cui ha imperato, a tutti i livelli, una metafisica del nuovo, ormai lo sappiamo da un pezzo; “nuovo” nel medioevo era sinonimo di cattivo, in età classica rerum-novarum-cupidus era un’ingiuria gravissima, oggi, invece, una cosa non può essere buona se non è nuova. Anzi, è arrivata a tal punto l’identificazione tra nuovo e buono, che per far passare per buona una cosa basta dire che è nuova.

Però non era questo soltanto ad agire nella frase del mio prof, o meglio, vi era anche un altro aspetto della questione; il mio prof, così come lo studente che sollevò l’obiezione sulla vetustà della musica classica, non riuscivano chiaramente a separare l’esperienza estetica dall’esperienza conoscitiva.
In qualche modo apparentavano arte e scienza. E poiché nella scienza vale il principio che una teoria vecchia è inservibile, nonché il principio della cumulabilità del sapere, che si arricchisce di sempre nuove nozioni, ecco che loro pensavano che questi due principi dovessero valere anche per l’arte.
Che la nuova musica dovesse in qualche modo essere migliore della vecchia e sostituirla!
Che noi non dobbiamo attardarci a riascoltare cose già ascoltate, ma accumulare nuove “cognizioni” musicali, per usare quest’aberrante espressione. Quasi che il fine della musica, della letteratura e dell’ arte, fosse quello di essere conosciuti, e non quello, invece, di procurare un esperienza ( ed uso il termine in senso pregnante, come ciò che precede ed è più profondo del conoscere scientifico) estetica.
Penso sia proprio questa confusione, che era dello studente ma anche del prof, ad aver indotto quest’ ultimo non solamente a dire, attenzione, ma a giustificare l’ intera musica, dicendo che procura ogni volta emozioni nuove.
Perché è vero, l’ emozione che dà la musica, così come quella che dà un quadro, è sempre diversa, proprio perché non è una cognizione oggettiva, ma chiama in causa la nostra soggettività di fruitori, e quindi le situazioni e gli stati d’ animo sempre diversi in cui siamo immersi quando facciamo l’ esperienza estetica.
Ed è questa anche l’ unica giustificazione del nuovo in arte.
Se un opera d’ arte è bella ed autentica, allora essa è anche originale e nuova; perché l’ opera autenticamente bella è quella in cui l’ autore è riuscito ad esprimersi felicemente e compiutamente, e l’ originalità e la novità dipende dall’ originalità e dalla novità dell’ autore, che in quanto individuo, è diverso ed irriducibile, nel suo sentire e nella sua personalità, a qualunque altro.
Quindi il nuovo, o meglio l’originale, è sempre una conseguenza dell’arte, guai se diventa il fine!
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commenti

Monica Lume utente autodisattivato
10 febbraio 2008 18:53
Ciao Ciro.
Vorrei fare una semplice osservazione al tuo interessante intervento.
A me pare che nel tuo discorso emerga una mistificazione del nuovo, quasi considerato come una categoria a stente e non come il naturale evolversi della vita e dei costumi.
Per quanto a me sembra, non è il nuovo a imporsi all'uomo, ma è l'uomo stesso che non è mai lo stesso, che è in costante divenire, e quindi sempre nuovo. Il mondo non fa che rispondere alle sollecitazioni e alle esigenze dell'uomo che muta.
Dobbiamo invece chiederci in che direzione spingere questa naturale e irriducibile evoluzione.
Le cose grandi di ogni epoca non hanno età, in quanto manifestano quell'elemento dell'umano che non muta, ossia di cui l'uomo di ogni epoca e generazione non puà fare a meno.
Per dirla banale banale c'è una frase del film Matrix in cui Morpheus dice : "Ci sono cose che cambiano, altre che non cambiano". E ci sono momenti e momenti, per cui quella musica o opera d'arte che in un momento non ti dice nulla, in un altro può ispirarti grandi emozioni e rivelazioni.
Penso che siamo immersi come esseri in divenite in un mondo in divenire.
Che ne pensi?

Antonio D'Antonio
10 febbraio 2008 19:26
Alcune semplici considerazioni.

Musica Classica vetusta per i giovani,forse,si.

Quali tempi,ritmi,melodie,note,7/9 ,12(Dodecafonia),per l'oggi?

I carmine Burani,potrebbero interessare?,si!

Quale Musica:,Chopin?,si,Mozart,Ciajkosvskij,Beethoven,Bach?

La Malinconia,Chopin? ,Si!

Non è un problema di Musica,ma dei tempi dell'ascolto con il nostro io,pensiero silente,dinamico,foce in giovanissima età.

Il Rock,con tutte le sue varienti è la musica per le giovani generazioni,gli appartiene,e del loro tempo,è un'insieme storico,dagli anni cinquanta ad oggi di ritmo e sonorità.

Perché nella storiA non si ascolta più il flauto di pan o la lira?

Forse perché non è più il tempo delle georgiche virgiliane?,Siiiiiiiiii.

Ma cla complessità è in Agguato!

Il tuo Insegnante di Musica non conosceva tutti i segreti della Medesima!

Cosa Comunica l'arte alle nuove generazioni?

Abbiamo il tempo per studiare i classici,o vogliamo sperimentare le dinamiche del colore,segno,varianti e variabili sonore,ritmi,Buchi Buchi,Jazz,Musica Brasiliana,sensualità e sessualità dell'essere Vita.

Spesso,anche su equilibri si è spaventati dello Sparafleshare di Multimedialità dei Video,presi da YouTube,perché mi chiedo?

Vedevo oggi il video e le miniature che spesso hanno accompagnato la Divina Commedia,nel racconto,Nel 13 e 14 Secolo,Multimedialità 8 secoli Prima?,si!

I giovanissimi vivono cio' che vedono e sentono,i fumetti giapposesi in primis,non quelli colti,ma la spazzatura dell'oggi!

Easistono i tempi della riflessione,si,forse nella periferie,soffoccanti,dove regna il nulla!
Oppure in provincia,dove si mastica la retorica del piccolo,e il silenzio?

Quale luogo è padrone l'arte?

Trasposizione secolare in pittura di un potere religioso?,noioso non credi?

Si vedono i ritmi della vita cittadine,forse in Brughel e in pochi altri!

Perché io giovane dovrei godere di una trasposizione del Divino,meglio Lascaux,no?,si!

Cavalli in corsa,caccia,magia della vità,essenza della nascita e della morte!

Ciro D' Alessio
10 febbraio 2008 20:52
Ciao Monica.
Io ti do perfettamente ragione ( nella seconda parte del mio intervento credo di aver detto più o meno quanto sostieni tu), solo che ad ipostatizzare il nuovo, quasi a trasformarlo da attributo in sostanza non credo di essere io, con la mia magari errata percezione del reale, ma in qualche modo la "cosa stessa"; il nuovo stesso si è ipostatizzato nel corso della storia degli ultimi secoli; dall' idea di progresso degli illuministi, alle metafisiche della storia dell' ottocento, ( non solo Hegel e Marx, ma anche tutto il positivismo)e nel novecento ,proprio quando in filosofia l' idea di progresso va in crisi su tutti i fronti dopo i disastri delle due guerre, essa si diffonde in tutta la società e diventa mentalità corrente sulla quale si basa la pubblicità e la società dei consumi in definitiva. L' arte del novecento, limitatamente a quest' aspetto, sembra far propria in qualche modo la logica del nuovo-è-meglio propria del capitalismo consumistico, e non riflettere criticamente su di essa, come ha fatto invece la filosofia; sarà perché l' arte stessa si è legata come mai prima in maniera indissolubile al mercato, tanto da non riuscire a metterne in discussione le logiche e a lasciarsene penetrare?
La filosofia che sta dietro le avanguardie è una filosofia da diciannovesimo secolo, una filosofia del progresso, non una filosofia da ventesimo secolo, che con la sua critica del progresso non può che portare ad un superamento del concetto stesso di avanguardia, come è successo in qualche modo con la transavanguardia ( ma qui chiedo il tuo aiuto perché sull' argomento non sono molto ferrato).
Io , proprio come te, sono sontrario a questa ipostatizzazione del nuovo, e vorrei che tornasse ad essere un attributo del sempre diverso ed originale agire, pensare e creare degli uomini su questa terra.

Ciro D' Alessio
10 febbraio 2008 21:31
Ciao Antonio
Grazie per l' elaborato intervento.
Devo subito dire, in difesa del mio povero prof, che non era un prof di musica, ma di storia e filosofia, perché, purtroppo, nel liceo italiano la musica non si studia!
Io sono sostanzialmente daccordo con te.
La realtà cambia, offre nuovi stimoli, ed è giusto che gli artisti li colgano e li usino ai loro fini espressivi.
Sono ancora più daccordo quando dici che alcuni autori ed alcuni aspetti della musica classica sono attualissimi.
C' è qualcosa nella nostra condizione umana, che cambia con ritmi più lenti che non il progresso delle tecniche; ad esempio il fatto che respiriamo ossigeno, che abbiamo bisogno di luce per vivere e per vivere bene, che nasciamo e muoriamo,che proviamo compassione per i dolori dei nostri simili ed attrazione sessuale per i loro bei corpi, etc.
Queste condizioni fondamentali dell' uomo non sono mutate dall' età della pietra e gli artisti che hanno fatto opere puntando a quest' "essenza" della condizione umana sono ancora attualissimi. Ed ancora oggi gli artisti che si rivolgono a queste tematiche sono pienamente contemporanei, con qualsiasi mezzo si esprimano, perché non è ancora superata questa condizione umana.
Magari un giorno lo sarà davvero, se davvero l' uomo riuscirà a poter fare a meno del suo corpo biologico ed a sostituirlo con dei corpi artificiali che non soffrono e non muoiono, ma allora le cose saranno così totalmente diverse che non sarà più nemmeno possibile parlare di uomo.
Quanto alle lire ed alle arpe, beh io non ci conterei troppo che l' epoca delle georgiche di virgilio sia così superata, anzi credo che possa ritornare alla grande. Man mano che veniamo perdendo contatto con l' ambiente naturale, o perché lo distruggiamo o solamente perché viviamo lontani da esso, tendiamo sempre più a provarne nostalgia ed ad idealizzarlo proprio come faceva virgilio; quindi chissà che in un prossimo futuro queste esigenze e queste nostalgie non trovino una massiccia espressione anche in arte.
Già quest' anno a Documenta c' era un bel campo di papaveri!
Per quanto riguarda i gusti dei giovani, è giusto che essi si scelgno i propri generi in musica letteratura e pittura; non è giusto, o meglio è un danno per loro stessi, che non arricchiscano la loro educazione estetica, che significa, in definitiva, arricchire la loro esperienza umana, che non si confrontino con realtà che magari non sono di accesso immediato per loro.
Io da piccolo abborrivo, come tutti i miei coetani, la musica classica. Ed i primi ascolti li subii quasi con sofferenza, come se stessi pigliando una medicina amara, ma poi, man mano che il mio orecchio si educava a quei suoni così diversi dagli abituali, mi prendeva sempre di più , finché non riuscii più a farne a meno. E lo stesso vale per la letteratura. Chi di noi ha letto per la prima volta a dodici anni la divina commedia e ne ha provato piacere? NOn era forse un tormento? Ma una volta superata l' asperità iniziale, che delizia, per l' orecchio, per lo spirito , per tutto!
Lo stesso vale anche in pittura!
La pop art magari è molto più immediata e seducente per i giovani che non Caravaggio o Morandi....
Il fatto è che l' educazione estetica, come tutte le educazioni, richiede tempo fatica costanza impegno ed anche un po' di sofferenza, cose che ormai i nostri ragazzi, a cui viene richiesto di essere flessibili per adeguarsi al mutevole mercato, non possono più permettersi, e non è nemmeno più loro richiesto, anzi queste doti sono quasi un danno ed un ostacolo, coem ha notato Sygmut Bauman nelle sue riflessioni sulla società liquida.

Antonella Iurilli Duhamel
10 febbraio 2008 22:47
Il vecchio e il nuovo necesariamente tirano in ballo quelle che sono le due maggiori concezioni del tempo: il tempo lineare e il tempo circolare.

Il pensiero orientale /femminile ha una visione circolare, tutto ritorna niente è vecchio perché dal momento che ritorna diventa automaticamente attuale e questa spirale conduce ad un approfondimento ad una maturazione.

Ne deriva un concetto particolare di salvezza, di una salvezza "misterica" e quindi atemporale, mitica, la quale opererebbe nella coscienza dell'uomo attraverso la celebrazione di un "Mito" che in definitiva non è nient'altro che il fac-simile del mito cosmico dell'eterno ritorno.


Il pensiero occidenale/maschile del tempo ne ha una concezione ha una lineare del tempo di conseguenza tutto ciò che rimane dietro le spalle è perso, il focus è sostanzialmente in avanti verso il progresso.
Una visione del tempo e della storia diametralmente oppostala basata sulla cosmogonia creazionista espressa dal primo versetto del libro del Genesi della Bibbia ebraica: "In principio Dio creò il cielo e la terra".
Visione opposta a quella greca in quanto la creazione del mondo rappresenta il " principio " del tempo. Il tempo ha quindi un inizio perché è creato con il mondo e perciò stesso avrà fine, non essendo altro che la misura delle fasi della successione di ciò che esiste.

Ciò che a mio avviso andrebbe puntualizzato specialmente se ci occupiamo progetti educativi è che la visione occidentale è sostanzialmente mentale e non vitalistica: in natura tutto ciò che è vivo si muove secondo il modello della spirale, basti pensareai fluidi corporei, La Kundalini, il DNA, i venti, le maree,i cicli lunari ecc.

Divenire non necessariamente equivale a crescere e maturare. La nostra società non è improntata su basi vitalistiche la crescita e la maturazione sono optionals molto costosi, tutto vi è contro, persino l'educazione dei giovani.

Il limite del tuo professore è stato quello di non essere riuscito a toccare lo studente con la sua passione la sua spiegazione non ha fatto breccia nel cuore del ragazzo sempre ammettendo che questa passione fosse realmente profonda e non una mera ostentazione di sapere-

Il punto per me è che oggi mancano le persone; coloro che hanno reali capacità di condurre, di formare.
Il tempo lineare, il mito del progresso hanno prodotto un drammatico spostamento verso l'alto verso la testa con un conseguente inaridimento del cuore; i giovani non possono essere toccati dall'intellettualismo ma da un'anima vibrante. Chi di noi non si è sentito rapire dall’energia dell’indimenticabile Robin Williams ne “L’attimo fuggente? ” ,La società dei poeti morti, la capacità di incendiare l'anima dei suoi giovani studenti?
Le vibrazioni non si trasmettono a chiacchier,e quando di fronte a noi c'è il fuoco lo possiamo ancora sentire? io credo di si,anche se la società del progresso produce solo labili fiammelle che hanno la presunzione di incendiare il mondo.


“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità, succhiando tutto il midollo della vita. Per sbaragliare tutto ciò che non era vita e per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.”

Monica Lume utente autodisattivato
11 febbraio 2008 13:26
Finalmente c'è l'opportunità di approfondire la questione del pensiero, lineare o circolare.
Credo anch'io, con Antonella, che l'umanità viaggi, sospinta da energie cosmiche, su un tracciato a spirale, quindi circolare.
Questo moto circolare non esclude però la possibilità di progresso, di acquisizione di nuovi modi di vivere.
Nuovi della relazione dinamica con il tempo, ma eterni nella loro sostanza extratemporale. Come dire, l'uomo e l'umanità cambia la veste ma non la sostanza strutturale.

Antonella Iurilli Duhamel
11 febbraio 2008 15:09
se è per questo il nostro corpo è ancora uguale a quello dei nostri predecssori quindi sostanzialmente incapace di metabolizzare il crescente inquinamento, le sostanze di sintesi chimia tutto qanto non è organico.
La nostra psiche come Jung ci ha fatto notare è tappezzata dagli stessi miti e complessi dei nostri antenati, ciò che è aumentata a dismisura e la nostra dissociazione dal nostro essere e sentire a vantaggio di una falsa identità e di vite surrogato
ciao Monica è vero è un argomento stimolante

Ciro D' Alessio
14 febbraio 2008 22:55
Scusami Antonella se non ho risposto al tuo stimolante intervento per tempo, ma purtroppo sto collegato ormai solo nei week end ed il giovedì.
La questione del tempo circolare e lineare è veramente di grande interesse.
Sapevo che il primo era proprio dei greci ed il secondo lo abbiamo, invece, ricevuto in eredità dalla tradizione ebraico cristiana, ma non avevo idea che in fondo a questa opposizione si celasse anche quella tra maschile e femminile.
Ancora a difesa del mio poveroi prof: era un prof di filosofia e non di musica, quindi era tenuto a trasmettere la passione per la sua materia e non per la musica, e la passione per la sua materia almeno nel mio caso l' ha trasmessa! ( con quali risultati non so!)
Molto interessante, inoltre, il legame tra tempo lineare e cerebrarizzazione dell' esistenza nell' epoca contemporanea.
Mi piace il modo in cui leghi il sentimento alla nostra natura corporale; io penso che oggi soprattutto di questo si abbia bisogno;
ricordarsi, in un mondo sempre più smaterializzato, burocratizzato, intellettualizzato, che siamo essere naturali e sensibili!
Quanto alla questione sollevata da Monica che la circolarità non esclude necessariamente il progresso, sono perfettamente daccordo.
Del resto l' immagine della spirale indica proprio questo; la spirle ritorna continuamente su se stessa, ma ogni volta ad un gradino più alto.
Io non polemizzo contro il progresso, che riconosco e del quale sono gratissimo, ma contro la sua mitizzazione, e contro la feticizzazione del nuovo, ossia contro l' idea che il nuovo sia necessariamente un progresso.
Contro questo che è stato il pensiero dominante dell' ultimo scorcio di modernità, mi pare più saggio pensare che il progresso sia, invece, la conquista di un faticoso, paziente e assolutamente non garantito e non automatico lavoro dell' uomo. Ed oggi, con alle spalle il secolo dei peggiori disastri umanitari ed ecologici della storia intera, possiamo quasi esserne certi al cento per cento.
Ora vorrei solo che alcuni miei amici artisti, non quelli che partecipano a questo forum, ovviamente, la smettessero di feticcizzare il nuovo in arte, e facessere anche loro propria l' idea che nuovo non significà più ormai necessariamente migliore. Ma bisogna capire che anche in arte il progresso ed il meglio ormai si conquista a fatica e non è affatto garantito dalla semplice novità.

cornice e cosalizzazione


http://www.equilibriarte.net/cirodalessio/blog/l-assenza-di-cornice-come-sintomo-di-

l' assenza di cornice come sintomo di

Poche cose oggi in pittura risultano tanto "vecchie" quanto la cornice.

E' questo non è legato solo a mode o gusti d' arredamento, ma ad un' idea che si è ormai radicata e che sta a fondo di queste stesse mode e gusti.

L' idea, cioè, che l' opera non debba essere isolata e staccata dallo spazio che la circonda, ma debba in qualche modo integrarsi in esso, ed interagire con esso.

E cos' è la cornice se non il simbolo della separazione tra l' opera e lo spazio che gli sta attorno?

La crisi della cornice è uno dei tanti aspetti di quello sviluppo che ha portato nel corso del novecento le arti figurative a rinunciare al loro ruolo di rappresentazione per volersi fare direttamente realtà.

Rappresentazione, infatti, è qualcosa che si riferisce alla realtà, ma non è direttamente realtà, ed è ben consapevole di questa differenza.

Questo scarto, questa distanza, tra rappresentazione e realtà, è una cosa fantastica, perché permette all' arte di non essere inchiodata al reale, e soprattutto le permette di potersi sollevare col suo sguardo al di sopra di esso, di poterlo anche criticare.

La rappresentazione, perché possa avere uno spazio suo, ha bisogno di esser ben delimitata dal reale. La cornice , il limite, separa la rappresentazione dal reale, ma non perciò limitandola, bensì permettendole di allargare i suoi limiti in una dimensione ed in uno spazio più vasti, che però non appartengono allo spazio reale ma a quello rappresentato.


"... la cornice di un quadro, dice Pareyson, nell' atto che realizza nel modo più conveniente l' ideale delimitazione che raccolga il dipinto in sé stesso isolandolo dall' ambiente circostante, permette allo spazio interno della pittura di esapndersi liberamente nel suo mondo ideale, allargandosi in dimensioni spirituali infinite ed inesauribili.


Cioè la cornice mentre delimita uno spazio reale finito, ne apre al contempo uno infinito della rappresentazione.


L' opera d' arte è capace di istituire ed aprire nuovi spazi, è essa stessa, apertura sullo spazio e sul mondo.

Heidegger riteneva fosse apertura sul mondo e dava anche a lei l' appellativo, tanto pregnante, di Dasein, che è l' appellativo che riserva all' uomo per desiganrne il carattere di appartenenza , ma al contempo di apertura al mondo.


Ma l' opera può essere apertura a patto di non essere un semplice oggetto tra i tanti.

L' opera d' arte si eleva al di sopra delle semplici cose e si apparenta al Dasein, propio in quanto in essa è racchiuso uno sguardo.

Uno sguardo che apre uno spazio ed un particolare rapporto al mondo.


Ora togli la cornice al quadro ed inseriscilo direttamente nel mondo delle cose e rischi di ridurlo ad un oggetto tra tanti.

E che il quadro sia perfettamente inserito nella realtà, e che abbia dei riferimenti ad altri oggetti che lo contornano, non lo rende per nulla più profondo e più significativo.

Quella di avere dei rimandi al tutto cosale di cui si è parte, non è affatto una prerogativa dell' opera d' arte , ma proprio di tutti gli oggetti, di tutte le cose. "Cosa" è proprio ciò che ha il suo "vero" al di fuori di. La cosa al di là del sistema di cose all' interno della quale acquista funzione e significato, non è nulla. E' come un' automobile in fondo al mare, del tutto inutile e priva di significato.


Funzioni e significati vengono dati alla cosa dalla totalità funzionale di cui è parte.


Ma l' opera d' arte in quanto rappresentazione non era semplice parte di un tutto all' interno della quale pigliava senso, ma era essa stessa una totalità, capace di avere un suo spazio, un suo ordine, un suo sguardo istitutore di una totalità, un suo senso.


E la cornice era appunto il riconoscimento della compiutezza dell' opera, della sua capacità di istituire senso autonomamente, e non di riceverlo soltanto come un semplice ente intramondano.


A ricevere un senso etraneo non ci vuole nulla, è un gioco da ragazzi. Ad aprire un mondo di senso, questa è la fatica dell' opera d' arte. Un mondo al di là di questo, e con una sua autonomia, e tuttavia in legame con questo attraverso l' autore ed il lettore, e dunque capace di influire, anche criticamente, sul mondo reale.

Ma perché si apra un mondo di senso, c' è bisogno di una chiara delimitazione dello spazio della rappresentazione, ed una lucida e accettata consapevolezza della sua alterità (preziosissima ) dal reale; ci vuole cioè, quale che sia, una cornice.
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commenti

Vittorio Losito
21 gennaio 2008 14:23
mi viene in mente la casa veneziana di Peggy Guggenheim : l'abbondanza di quadri e sculture,la testata del letto di Calder .In questo caso (che è naturalmente un'eccezione)quasi tutte le cose erano cose d'arte...la separazione dal quotidiano forse si può ottenere anche con una "cornice mentale"...
condivido le tue riflessioni , la capacità di astrazione fa parte della lettura di un'opera;la cornice aiuta (ma a volte eccede e distrae, poi c'è chi dipinge anche sulla cornice!) ...
credo che possano valere anche per come si organizza una mostra di quadri...il contesto è
decisivo per la fruizione seria delle opere.

Ciro D' Alessio
21 gennaio 2008 17:03
ah sicuramente la cornice può essere anche mentale.
Diciamo che essa quì "simboleggia" la distinzione tra la rappresentazione ed un oggetto qualsiasi.
Da sola, infatti, la cornicie di legno non basta a fare di un oggetto una rappresentazione.
Non basta incorniciare una cosa per farne arte, così come non basta esporla in un museo, o farla con "intenzione artistica".
Anche se di esempi del genere ne abbiamo tantissimi ed ogni giorno di più.

Caos e cosmos


http://www.equilibriarte.net/cirodalessio/blog/caos-e-cosmos

Caos e cosmos

Caos e Cosmos hanno forse una parentela etimologica.
Sicuramente nella mitologia greca si accompagnano sempre come una indisgiungibile coppia dialettica. Il cosmos, cioè l' ordine bello, buono e razionale del mondo, nasce sempre da uno sfondo caotico.
Tutti i miti greci sulla creazione cominciano " in principio era il caos...".
Anche i filosofi pensano la creazione del mondo, non come una creazione dal nulla, come ci ha abituati a pensare il pensiero cristiano, ma come la nascita dell' ordine dal caos.
Per Platone in principio esisteva una materia informe, la kora, che un giorno il Demiurgo decide di plasmare a modello delle idee iperuranie. La creazione per Platone era proprio come l' atto di un artista, che prende una materia preesistenti, e gli imprime una forma. Mentre il dio cristiano crea dal nulla, dato che nulla gli preesiste , sia la materia che la forma.
Quindi il dio cristiano, che è verbo, logos, non ha un caos che lo precede.
Il Logos cristiano si presenta assoluto, già fatto, non ha una storia, non nasce da una materia caotica, non si conquista faticosamente come il cosmos greco.

Di fatti nella filosofia e nella mentalità cristiana il caos non ha quel gran posto che ha nella greca. Li il caos è sempre all' origine della creazione, qui ha un ruolo marginale, teoricamente non esisterebbe nemmeno, perché nulla sfugge alla provvidenza. Se abbiano una nozione di caos e di contingenza, è solo perché i nostri intelletti sono limitati e non riescono a trovare le connessioni causali in tutto, ed allora chiamiamo caos, ciò che a noi non sembra ordine.

Secondo il pensiero greco, il caos non fu poi definitivamente superato con la costruzione del cosmos, ma esso continua a esistere come fondo su cui si regge il cosmos stesso.
La costruzione di un mondo ordinato, essendo il frutto di una fatica, di un lavoro "umano", va rinnovata di giorno in giorno altrimenti si ritorna al caos. Questo pericolo secondo il pensiero cristiano non lo corriamo, perché l' ordine non è il frutto di una conquista che si staglia su di uno sfondo oscuro, ma ci è stato dato da sempre; a noi non spetta di costruirlo ma solamente di scoprirlo e di conoscerlo , visto che già c' è, è già scritto nel grande libro della creazione.
Ed è significativo che il creato venga concepito come un grande libro da leggere, mentre i greci lo concepivano come una materia informa da domare e da rendere abitabile.

La coppia nietzschiana di apollineo e dionisiaco, ci conferma che il caos non è mai superato del tutto, ma che va tenuto a freno di giorno in giorno attraverso un lavoro ed un dispendio di energie, e che comunque di tanto in tanto erutta ed esplode. Ed, inoltre, il caos primordiale è il fondo stesso della vita, su cui si costruisce un cosmos, che non può' mai superarlo, perché vi si regge.

Che c' entra tutto questo con la pittura?
Possono queste diverse visioni cosmologiche avere un peso ed un influenza sulle arti figurative?
Una visione del mondo può influenzare il gusto estetico?
Il problema è enorme. Per il momento dico solo che probabilmente l' influenza è circolare.
Ossia non solo la visione del mondo influisce sul gusto, ma anche il gusto, che ha una sua autonomia, ci fa propendere per una visione piuttosto che per un altra.
Del resto, una questione cosmologica cosí ampia come quella del rapporto caos-cosmos, non ha mai ragioni prettamente teoretiche e non può mai essere risolta col solo uso dell' intelletto, come fosse un teorema di geometria. Nelle grandi questioni filosofiche , l' intelletto non è mai solo, non fa mai astrazione dal sentire particolare di ciascun pensatore.
Alla fine si propende per una visione o per un altra, non perché si è ragionato in maniera spassionata su quale sia l' ipotesi migliore e piú ferrata, ma perché ci si sente emotivamente ed esistenzialmente piú coinvolti in una piuttosto che in un' altra.
Quindi, non solo una visione del mondo può influenzare il gusto estetico, ma anche il gusto estetico, che ha a che fare con l' aspetto sensibile, e dunque irriducibile al razionale di ognuno di noi, può influenzare una visione del mondo.

Ora tra il modo di concepire il rapporto caos-cosmos greco e quello cristiano, sento piú vicino alla mia sensibilità, e, suppongo, alla nostra sensibilità contemporanea, quello greco.
Ecco che amo quelle opere dove la forma sembra nascere da un caos informe.
I famosi incompiuti di Michelangelo, sono fantastici proprio perché danno questa sensazione, che una forma voglia faticosamente liberarsi della materia in cui è costretta senza mai riuscirvi compiutamente.
Molto meno coinvolgenti invece trovo quelle forme già perfette e compiute, che non mostrano nulla della fatica e dello sforzo fatto dalla forma per uscire dalla materia. Nell' arte "Classica", infatti, si voleva che lo sforzo dell' esecuzione fosse celato, affinché l' opera non paresse fatta da mano umana, ma divina.
Una bella sintesi tra caos e cosmos la ritrovo nella pittura degli impressionisti, degli espressionisti, dei futuristi. Qui le figure sembrano stagliarsi su di uno sfondo informe.
Da un caos di fondo, da una nube vaporosa, fatta spesso di pennellate vigorose, istintive e volutamente casuali, ecco emergere e venire in primo piano un accenno di forma.
Un rapporto dialettico tra forma e non forma, che ricorda le coeve riflessioni di Nietzsche sull' apollineo ed il dionisiaco. E quindi, poiché Renoir e Monet probabilmente non avevano letto Nietzsche, il giovane Nietzsche si sarebbe lasciato influenzare dalle loro opere, è probabile che a fondo di entrambe vi sia un sentire comune, che era il nuovo sentire europeo dell' epoca.

Nel Novecento, che è una grande analisi ed una grande vivisezione dell' arte in tutti i suoi aspetti e componenti, il caos ed il cosmos tendono a scindersi. Da una parte ci sono artisti che dipingono il solo caos, separato ed isolato dal cosmos che sempre lo foggia, dall' altro artisti che dipingono il solo cosmos, ossia la pura forma, anche qui separata e scissa dal caos da quale sempre emerge.
In questa scissione dei poli che prima erano congiunti, va, purtroppo, perso l' energia ed il carattere dialettico dell' opera.

Cosa' è il caos senza il cosmos? Secondo me un astrattezza, e lo stesso è una astrattezza il cosmos senza il caos da cui emerge.
Di fatto il carattere dominate dell' arte contemporanea, cosí come della società e della vita contemporanea, è appunto l' astrattezza.
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commenti

Vittorio Losito
18 gennaio 2008 13:59
forse la pittura dovrebbe nascere sul crinale fra caos e cosmos
del resto l'astrattezza , dopo una iniziale curiosità intellettuale , diventa stucchevole ripetizione dello stesso schema mentale , quindi noiosa.
Questo succede sia sul versante enrgetico-gestuale-espressionista che sul versante concettuale-idraulico (leggi :installazioni varie).
Quel crinale io lo chiamo "intensa pittura".

Vittorio Losito
18 gennaio 2008 14:06
C'è poi da considerare tutto un filone di una operatività pseudo-pittorica bamboleggiante, che denuncia un debito (triste...) verso la fotografia e verso una mal digerita e mal conosciuta pittura di genere (XIX sec.), con un dissennato culto per il particolare descrittivo, che evidenzia un deteriore sentimentalismo subculturale ... in questo portale se ne trova una estesa esemplificazione.

Ciro D' Alessio
18 gennaio 2008 14:26
Concordo perfettamente Vittorio.
Il crinale tra caos e cosmos è quel "concreto" vitale, cui l' arte, secondo la mia opinione, dovrebbe ispirarsi per essere vitale.
L' astratto è interessante in quanto analisi di uno dei tanti aspetti dell' arte.
Ma in queste tante analisi si va perdendo proprio il "tutto vivente" ( detto senza ombra di misticismi) che costituisce l' opera d' arte, che le dà vita propria, e che le permette dunque di non stancare mai.

Ciro D' Alessio
18 gennaio 2008 15:14
non concordo invece sul secondo intervento.

Ciro D' Alessio
18 gennaio 2008 15:37
Il fatto è che nella pittura ciascuno di noi esprime il suo particolare rapporto con la realtà, che è vario e diverso in ciascuno.
Oggi ci si rapporta alla realtà in molti modi ed attraverso molti mezzi, l' eperienza diretta è ormai un isola molto limitata circondata da un oceano di esperienze già mediate, foto, cinema, televisione, tg, giornali, radio etc.
Sarebbe veramente strano se il pittore volesse mettere da parte questa parte preponderante della sua esperienza per accontentarsi di quelle poche, spesso banali cose che vede direttamente o che può costruire con la sola forza della sua immaginazione.
Non vedo nulla di strano dunque se anche il pittore, come fanno tutti gli altri artisti ormai da tempo, prende atto dell' esistenza degli altri media e li usa per i suoi fini espressivi.
Riguardo a chi fa pittura che si attarda sulla descrizione del particolare....
Beh personalmente è un tipo di pittura che nemmeno a me piace... però....c' è evidentemente chi l' apprezza.
C' è chi nei quadri cerca una descrizione, spesso una descrizione appagante, rassicurante...
io non condivido ma rispetto.
Ed è giusto che ci siano anche artisti che rispondono a questo bisogno.
Lo stesso vale con l' arte astratta, gestuale, con le istallazioni e tutto quanto si fa sul versante cosidetto più "contemporaneo".
Evidentemente c' è chi ha bisogno di tali opere ed altrettanti artisti che crercano di rispondere a questo bisogno.
Se è vero che ormai non si crede più alla storia come progresso lineare, e non si crede più nemmeno ad un universo con un centro, ma a più storie che si intrecciano ed a più centri ed a più universi, allora veramente non ha senso dire quale è il modo giusto e quale quello sbagliato di fare arte. Se hanno torto gli artisti che pensano che le istallazioni siano il superamento della pittura, altrettanto torto ha chi pensa che le istallazioni vadano in qualche modo al di fuori dell' arte.
Oggi non ha più senso parlare di superamento, di avanguardia ( sono concetti che racchiudono una filosofia della sotoria come progresso) ma nemmeno ha senso escludere ciò che non ci piace dal regno dell' arte, coem se potessimo essere noi a stabilirne i confini.

Certo ogn' uno di noi ha diritto di fare quello che sente e prender anche posizione contro chi la pensa diversamente.
Ma la complessità del mondo e della realtà in cui viviamo ci invita a essere moderati nei giudizi, nella consapevolezza che nessuno può essere certo di stare lavorando nella direzione giusta e di poter scagliare la prima pietra....

Vittorio Losito
18 gennaio 2008 16:18
caro Ciro non posso che assentire quando dici che bisogna essere moderati nei giudizi.Tuttavia non vorrei che si finisse col mettere tutto sullo stesso piano...eliminando così in qualche modo ,ogni discorso valutativo e critico.E' ben vero che ogni valutazione critica in fondo si possa ridurre al gusto personale o di gruppi di persone: ma io credo che il nostro (per ora tuo e mio )impegno sia quello di cercare di fondare logicamente e filosoficamente l'operare
pittorico e l'arte. Chi non pensa o pensa poco e male (cioè superficialmente e non curandosi di un minimo di rigore nell'uso dei concetti che adopera) inevitabilmente dipinge male.
La pittura non è riducibile a ispirazione e/o slanci emotivo-sentimentali che si <> sul supporto : in troppi sono ancora e inconsapevolmente fermi a concetti estetici che riguardano tempi , cultura e modi di vita lontani e desueti. I conti critici con tutta l'arte del 900 vanno fatti con l'aiuto dei testi ...per me Brandi soprattutto. Dopo di che non si può più pensare di dipingere in certi modi...la pittura è un percorso di autoconoscenza attualizzato e collegato con il reale contemporaneo da mille tentacoli.
Quando vedo certe opere vi leggo evidenti lacune di conoscenza della storia dell'arte e tanto superficiale orecchiamento delle (supposte) tendenze di moda.
Mi spiace molto di non poter discuterne con te con calma e con il necessario tempo.


Vittorio Losito
18 gennaio 2008 16:24
la parola saltata fra virgolette era : ESPRIMONO
(l'ESPRESSIONE è molto in voga!)
non posso escludere in ogni caso che il gusto personale non valga anche in negativo, visto il vero e proprio fastidio che ho alla visione di certe opere...e così tutto il resto non sarebbe che una spiegazione razionale di questo...

Ciro D' Alessio
18 gennaio 2008 18:26
beh certamente la pittura è collegata al presente da mille tentacoli, tuttavia il presente è così complesso che è davvero difficile stabilire cosa è attuale e cosa è superato.
Considera poi che l' artista può scegliere liberamente e consapevolemente di essere inattuale.
Noi non siamo condannati al presente, lo possiamo trascendere col desiderio e con l' immaginazione, presupposti questi, per poi poterlo trasformare attraverso la conoscenza e l' azione.
Non concordo del tutto che l' arte sia una forma di autocoscienza.
Autocoscienza di chi e di cosa? Se puoi chiariscimelo.
Altrimenti penso inevitabilemente alla concezione Hegeliana, che ha avuto ed ha tutt' ora grandi meriti, ma anche, a mio avviso, grandi limiti.
A Hegel preferisco Kant che lega l' arte alla facoltà del gusto, che è autonoma dalla facoltà teoretica e da quella etica.
Del resto concepire l' arte come una forma di conoscenza rende problematico stabilirne l' autonomia. Alla fine un arte così concepita riesce con difficoltà ad emanciparsi da un rapporto di ancillarità rispetto alla conoscenza pura e propriamente detta. E di fatti in hegel finisce coll' essere unan forma di autocoscienza dello spirito assoluto (perché solo ammettendo anche lo spirito assoluto, e tutto il resto della "metafisica" hegeliana, ha seso parlare di arte come autocoscienza di un epoca, altrimenti no)destinata poi ad inverarsi ed ad essere superata dalla filosofia, intesa come piena autocoscienza che lo spirito assoluto ha di se stesso.
Si può poi dipingere bene anche se si hanno idee confuse, proprio perché l' arte non è solo attività teoretica, ma poggia su altre facoltà umane. E di grandi artisti che non necessriamente avevano idee chiare e rigorose ne abbiamo avuti a tantissimi, probabilmente la maggioranza.

Quanto al gusto personale che può valere anche in negativo...sono daccordo con te.
Le nostre riflessioni spesso non sono che delle razionalizzazioni di scelte di gusto fatte a monte ed in maniera non chiaramente razionale.

Vittorio Losito
18 gennaio 2008 19:32
Autocoscienza come reificazione , realizzazione di: un fare per guardarsi poi dall'esterno come spettatore critico. Non ti capita di guardare a lungo una tua opera finita per scoprire quei nessi e quelle illuminazioni che si sono attraversate durante il lavoro, come si sono tradotte in materia e segni e forme?
Il fatto è che oggi non è più possibile ipotizzare una moderna giottesca ingenuità dell'artista, artista e critico tendono a coincidere ... altrimenti gli "ingenui" artisti
a caccia di successo divengono il gregge di qualche intraprendente "critico" che pensa per loro , fino a dir loro cosa fare e non fare.
La pittura ingenua/incolta dopo il XX secolo è
utopica e forse è solo una ipotesi antica per recuperare un ruolo alla figura del critico.
Non sto sostenendo che per dipingere bisogna avere le idee chiare, ma che bisogna essere coscienti che dipingere riguarda anche le idee, il pensiero , e non è una attività umorale ...in attesa dell'ispirazione. Insomma postulo quell'equilibrio fra apollineo e dionisiaco di cui sopra. I veri limiti della pittura sono nella maggiore o minore consapevolezza della materia e della tecnica che si sceglie di utilizzare. Se avessi la pazienza di dare un'occhiata ad uno dei primi post del mio blog
troveresti esplicitato meglio questo concetto.

Ciro D' Alessio
18 gennaio 2008 20:28
Ok andrò a visitare i primi post.
Cmq condivido questa tua concezione dell' autocoscienza come oggettivazione del soggetto nell' opera, non mi piace però il nome autocoscienza perché mi ricorda la filosofia idealistica.
Quello che scrivi sull' artista ingenuo e sul critico che costruisce la sua fortuna è molto, ma molto interessante.
Io non intendo difendere l' ingenuità dell' artista, ma solo ribadire l' autonomia dell' operare dell' artista da quello del teorico, proprio per garantirgli la stessa autonomia dal critico che auspichi pure tu.
Cmq leggero il tuo blog e poi continueremo questo interessante confronto.

Ciro D' Alessio
18 gennaio 2008 20:38
E' davvero molto interessante il tuo blog, grazie per avermelo segnalato!

Giovanni Ranella utente autodisattivato
19 gennaio 2008 11:49
mi trovi assolutamente daccordo quando affermi: "Se è vero che ormai non si crede più alla storia come progresso lineare, e non si crede più nemmeno ad un universo con un centro, ma a più storie che si intrecciano ed a più centri ed a più universi, allora veramente non ha senso dire quale è il modo giusto e quale quello sbagliato di fare arte. Se hanno torto gli artisti che pensano che le istallazioni siano il superamento della pittura, altrettanto torto ha chi pensa che le istallazioni vadano in qualche modo al di fuori dell' arte.
Oggi non ha più senso parlare di superamento, di avanguardia ( sono concetti che racchiudono una filosofia della storia come progresso) ma nemmeno ha senso escludere ciò che non ci piace dal regno dell' arte, come se potessimo essere noi a stabilirne i confini."

Anche se, ne sono convinto, l'unica e vera facoltà della poesia e l'arte in generale, sia quella di provocare nell'animo un particolare tipo di elevato eccitamento per il quale possiamo intuire la percezione "Numinosa" della nostra propria natura...in sostanza un opera d'arte più che far ragionare...la ragione è appena sfiorata da determinati contenuti che in sostanza sono proprio questi a renderci migliori...insomma la poesia deve commuovere rivolgendosi alla parte più segreta dell'essere e che in nessun altro modo potrebbe essere raggiunta o rivelata.
un saluto e grazie per la preferenza

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 12:39
Giovanni ha appena esplicitato il suo personale criterio di valutazione di un'opera:si può solo dire che è rivolto agli "effetti" che l'opera dovrebbe produrre piuttosto che ad una analisi dell'opera stessa.
Non sono tentato da apprezzamenti ecumenici e credo che si possa "leggere" strutturalmente e criticamente un'opera , giungendo a conclusioni che pur prive di pretese universali fondano una scelta estetica e di poetica rispetto ad altre,
delle quali si vede abbastanza bene il percorso
mentale e l'approdo (non condiviso).
In ogni caso le discussioni critiche ci sono sempre state in ambito per così dire "artistico" proprio perché si sfugge ad ogni oggettività.
Infine io credo che occorra fare un credibile sforzo volto ad un uso il più rigoroso possibile del linguaggio e dei concetti che si adoperano.

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 12:42
Ciao Vittorio, ho letto buona parte del tuo blog ed ti rinnovo i complimenti per la qualità delle riflessioni, delle discussioni e per i preziosi riferimenti alla letteratura sull' arte e l' esteticha.
Su alcune questioni di fondo credo di poter dire di concordare pienamente con le tue posizioni.
Su altre mi permetto di dissentire.
Sostanzialmente condivido la tua esigenza di dare, in qualche modo, fondamento all' autonomia della pittura. La pittura non è riproduzione analogica del reale, non è nemmeno un illustrazione di un pensiero slegato ed imposto ad essa, e nemmeno espressione immediata della soggettività, una specie di sfogo.
Su cosa sia la pittura in positivo, c' è invece una piccola divergenza.

Tu ami molto Cezanne perché è stato un po' il Kant della pittura, cioè colui che ha chiarito in maniera definitiva che le forme della pittura sono costruzioni del soggetto, e non riproduzioni analogiche, quasi meccaniche, della forme esteriori. E tuttavia Cezanne dipingeva la realtà esterna al soggetto, anche se ricostruendola, cogliendone i tratti che riteneva essenziali, e non riproducendola passivamente, e non si metteva a costruire forme in libertà.
Senonché la sua idea che la pittura è costruzione del soggetto ha fatto sì che dopo di lui ci si allontanasse definitivamente dal reale e si facesse una pittura del tutto slegata dalla realtà esterna, cioè una pittura astratta. Proprio come dopo Kant il pensiero idealistico mise voltuumanete da parte la realtà irriducibile al soggetto del mondo reale e cominciò a fantasticare che fosse una sua costruzione.

Ora vedo con piacere che tu citi spesso Heidegger nel tuo blog.
Se l' uomo è dasein, cioè costitutivamente essere nel mondo, e non un soggetto che ha la sua realtà altrove e si trova poi, accidentalmente, in questo mondo, allora capirai come l' arte , ma anche la filosofia, che prescinda dal mondo esterno, sia inevitabilmente astratta.
Ma astratta non nel senso che a questa parola danno i pittori, ma astratta nel senso che a questa parola danno i filosofi.
Un soggetto separato dal mondo è un astrazione e allo stesso mondo un soggetto che si esprime senza esprimere il suo legame al mondo esterno che lo eccede, esprime qualcosa di astratto.
Noi non siamo altro che apertura al mondo,
esprimere noi stessi, la nostra soggettività, non significa altro che esprimere la nostra particolare apertura e relazione sul mondo.
Al fondo del soggetto, dell' interiorità, v' è l' esteriorità, come ci ha insegnato Levìnas, portando avanti, anche criticamente, il cuore della riflessione heideggeriana.

Quindi la pittura non è solo costruzione di forme da parte del soggetto, ma anche tentativo di "esprimere" ( mi spiace dover usare questa parola che ti è tanto antipatica!) il rapporto che il soggetto ha col mondo che lo eccede. Se si dimentica questo secondo aspetto allora non si capisce perché non si debba accettare il progressivo impoverimento della pittura cui si è assistito nel corso del novecento e che ha alla base l' idea che l' arte sia solo pura e libera costruzione di un soggetto.
Ora un artista che voglia esprimere il suo rapporto col reale lo può fare creando forme che colgano e ricostruiscono le sottili armonie del reale, come ha fatto Cezanne e come mi pare sostenga tu, ma anche rompendo volutamente le forme per rendere non solo l' armonia, ma il moto, l' impatto, l' irruzione, che il reale ha su di lui.
Anche la rottura della forma la possiamo considerare una costruzione formale, ed in tal caso saremmo daccordo.
Cioè oltre a Cezanne io considero straordinariamente contemporanei anche quegli artisti, come Monet o Renoir, o come lo stesso Carrà, che volutamente nella loro pittura rompono le forme, quasi a voler attingere ad una sensazione di realtà che preceda la forma e la percezione.

Mi sembra che tu leghi la pittura alla costruzione dell' immagine, quindi in qualche modo alla percezione, che è appunto costruzione di forme.
Ma prima di percepire il mondo, noi siamo esposti ai suoi stimoli, in maniera quasi passiva; e' la sensazione ( la "certezza sensibile" della fenomenologia di Hegel).
Ora nella sensazione la realtà non ha ancora forma definita, non è ancora percepita.
Le forme indefinite, e disintegrate quasi, di Monet e Renoir mi ricordano appunto la sensazione.
E credo che la sensazione, la certezza sensibile, meriti in pittura lo stesso posto che ha la percezione, e non uno inferiore.

Ammesso poi che la pittura è espressione di un rapporto particolare del soggetto col mondo, io ne fonderei l' autonomia non solo sulla costruzione della visione, ma anche su di un particolare ed irriducibile modo di rapportarsi del dasein al mondo che con la pittura, e non con altri mezzi, può essere espresso; l' impatto preteoretico e pre-percettivo che la realtà esterna ha sul soggetto; non si tratta dell' immagine della realtà esterna, ma di quella sensazione di stare immersi nel reale che spesso si ottiene proprio rompendo o dissolvendo le forme.

Quindi, ritornando al caso ed al cosmos, l' arte sta in un punto nevralgico ed oscillante tra i due e può propendere sia in direzione del cosmos, della forma costruita in cui si ogggettiva il soggetto, sia anche in direzione del caos, della rottura delle forme soggettive che l' impatto del reale che non si lascia ridurre a forme produce sul soggetto e che questi cerca, in qualche modo, di esprimere pittoricamente.
Scusa la lunghezza dell' intervento.

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 12:45
Grazie a te giovanni per aver prestato attenzione alle mie riflessioni!
Mi trovo daccordo con te!

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 12:49
Si vittorio, nel leggere l' arte vi sono dei criteri che non sono solamente soggettivi.
Però il loro statuto intersoggettivo è molto problematico.
Dietro ogni sistema di criteri per leggere e giuducare le opere si celano visioni del mondo e dell' arte che possono anche essere non condivise.

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 12:56
diciamo vittorio che in genere quando un pittore non ha un' adeguata cultura pittorica poi si vede nelle sue opere, questo è vero.
Dopo tutto il gusto estetico si esercita e si foggia sull' osservazione delle opere del passato.
Però, a volte, mi imbatto in dei pittori che mostrano un gusto incolto, ma che tuttavia riescono a produrre cose lo stesso cose interessanti.

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 12:59
vittorio purtroppo non ho letto quel libro che citi nel blog relativo alla lettura di un opera ( mi pare Marangoni) ma mi interesserebbe molto, credi che lo posso trovare ancora in commercio o devo farmelo prestare dalla biblioteca?

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 14:01
"Anche la rottura della forma la possiamo considerare una costruzione formale, ed in tal caso saremmo daccordo"
Il punto è proprio questo!
-Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu-
Il dipingere è, in qualsiasi modo, costruzione di forme...
Non sono molto curioso di ciò che accade prima
-in interiore homine- : quel che resta è la forma ...e si tratta di verificare se riesce o no ad attingere all'"astanza", alla realtà pura che ,sola, garantisce che trattasi di opera d'arte.
La costruzione della forma anche se è mentale è
inevitabilmente legata alla percezione...dipinge chi pensa per immagini, siano esse anloghe o "astratte": Afro dipingeva
forme e immagini facendo pittura cosiddetta
"informale".
"Ora nella sensazione la realtà non ha ancora forma definita, non è ancora percepita": questo è smentito dalle ricerche neurobiologiche più recenti; vedi
-Arte e cervello- di Semir Zeki (B.Boringhieri)
Vedere è percepire e comprendere
"è possibile distinguere una forma solo attraverso un confronto,e quindi una verifica, con qualche modello preesistente.Ma che altro può essere questo modello se non una registrazione visiva immagazzinata nel cervello in seguito ad una ripetuta esposizione a molte forme?"pag.117
"un artista cerca di rappresentare gli elementi essenziali della forma come sono costituiti nella sua percezione visiva , che io interpreto come il suo cervello" pag.134
poi tutto il capitolo XX -Neurologia dell'arte astratta e dell'arte figurativa-
Peccato che tempo e spazio siano troppo ridotti...

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 14:08
vorrei suggerirti di dare un'occhiata al sito di questo pittore abbastanza giovane :
http://www.fernandodistefano.it/
potremmo poi discuterne...

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 15:25
per quanto riguarda il libro di Marangoni , credo che non sia stato ripubblicato di recente
ti consiglio una ricerca in rete e poi su ebay-libri...spesso vi ho trovato testi introvabili come "Fenomenologia della tecnica artistica" di Dino Formaggio (introvabilissimo!)

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 15:28
a questo indirizzo il libro è disponibile...anche se il prezzo è d'affezione:
www.nopress.it/libribooks/

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 15:30
p.s. il testo di Matteo Marangoni è in due volumi

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 16:22
Ho visitato il sito di fernando di stefano.
Mi piacciono molto i suoi dipinti ed il suo stile.
Ha una bella pennellata grassa e morbida al tempo stesso, e la cosa è abbastanza rara.
Le sue tonalità mi ricordano Morandi, ma anche Carlo Levi: sono delicate ed armoniose.
Conferiscono al dipinto una malinconica poesia.

Vittorio Losito
19 gennaio 2008 16:28
infatti ha colpito anche me...è anche un eccellente incisore, se hai notato
forse il limite sta nella tentazione della "maniera" sempre in agguato
infatti penso che le opere migliori siano quelle più vecchie , rispetto alle ultime presentate

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 16:29
Si è vero, la sensazione è distinguibile dalla percezione solo a livello teorico ed astratto.
La sensazione non ha un immagine e quando l' assume è già percezione.
Tuttavia il compito difficile della pittura è anche, secondo me, di alludere a questa fattore che precede la percezione e che la rende possibile, e che è la nostra apertura, la nostra esposizione al reale.
In effetti anche la lingua ha il compito di dire a parole ciò che va al di là delle parole, e così il pittore può mettere in immagini, delle sensazioni che vanno al di là dell' immagine e della percezione.

Ciro D' Alessio
19 gennaio 2008 16:36
non sono un grande intenditore di incisioni, ma le sue mi piacciono perché le forme si compongono a partire da una miriade di liniette e piccoli segni dati apparentemente a caso, il ché crea una morbidezza ed un energia al tempo stesso.
Quanto alla maniera è il rischio che corre ogni pittore che voglia anche vendere qualcosa.
Purtroppo per raggiungere buoni risultati in pittura si deve dipingere sempre, è difficile farlo solo per hobby ( a meno che non ci si accontenti di risulati modesti come nel mio caso), quindi in qualche modo ci deve badare anche alle esigenze del mercato, e distefano mi pare lo faccia in maniera molto discreta e senza rinunciare al suo stile e nemmeno all' originalità di ogni singolo pezzo.