domenica 17 maggio 2015

Ciro D'Alessio discorre d'arte e di filosofia con Manuela Ragucci

Come e quando è avvenuto l’incontro con la pittura. E’ stata una passione graduale o hai capito subito che poteva essere pare integrante della tua vita?
Ho fatto il mio primo dipinto ad olio, per caso e per curiosità a diciotto anni. Comprai per puro caso un piccolo set di colori, mi cimentai e fu tanto e tale il piacere, l’appagamento, la sfida, intellettuale, ma anche pratica nel realizzare qualcosa di mio, che da allora non ho mai smesso. In breve quell' hobby è diventato una passione dominante e poi quasi un ossessione. Non ho scelto di fare il pittore, ad un certo punto la pittura si è impossessata di me e non ho avuto altra scelta!
Nel primo periodo trai ispirazione da luoghi di impareggiabile bellezza. Napoli resta sempre la tua fonte primaria di ispirazione?
Ho iniziato cercando di dipingere alcuni paesaggi della mia terra. Di fronte ad alcuni scenari, immerso nella natura, provavo un indicibile benessere, una pace dei sensi e dello spirito. Ho cercato, per un certo periodo, di catturare quella sensazione, studiando la pittura, andando a studio da pittori di paesaggio napoletano. Man mano capivo, però, che non erano le forme dei paesaggi a creare quelle sensazioni di pienezza, di armonia, di energia e vita, ma erano la luce ed il colore. La luce solare, se ci pensiamo un attimo, è l’origine stessa della vita sulla nostra terra. La luce del sole ci ha generati, ci mantiene in vita, ed un giorno, molto lontano, ci brucerà inghiottendoci in una supernova. Niente di strano dunque se, infischiandomene di tutte le ricerche particolari intraprese dai miei colleghi artisti contemporanei, che si concentravano su vari aspetti dell’arte, linguaggio, mezzi, materiali, concetti vari, io mi concentravo su la sola cosa che mi è sempre parsa importante e vera, l’origine di tutto, ciò che è al di là degli oggetti e dei concetti particolari e li ha generati tutti, la luce. Man mano la mia ricerca si è dunque naturalmente spostata dallo studio descrittivo del paesaggio e delle scene con figure ambientate in natura, alla pura ricerca sulla luce ed alle sue manifestazioni tramite il colore. Da un impressionismo descrittivo, sono passato ad un impressionismo informale ed espressivo.  L’impressionismo però rimane fondamentale: esso, in senso lato, significa che è comunque la luce esterna, il mondo esterno che mi ispira, anche quando il risultato su tela è un gioco apparentemente libero di colori, in realtà quei colori mi sono stati suggeriti dal mondo esterno, che sempre precede ed è a fondamento di ogni nostra fantasia, secondo me.
Porticciolo di pozzuoli, Ciro D'Alessio 2014
La tua spatolata non trasmette mai fretta o nervosismo, anche nella modernità sembra cercare atmosfere antiche e serene. E’ solo un’impressione?
Mi sono sempre lasciato ispirare dalla luce esterna e del mondo naturale, ho volutamente trascurato tutto ciò che è moda, soprattutto ho trascurato l’ arte concettuale. Niente è più lontano da me dell’ idea che un opera di pittura debba servire per veicolare concetti intellettuali. La pittura non è illustrazione del pensiero, ma ha la capacità, attraverso la rappresentazione della luce, di sintonizzarsi con le onde più profonde e misteriose del nostro essere. Noi stessi di fatto, come dicevo prima, non siamo altro che un “derivato” della luce solare. Tra tutte le arti, la pittura che ha la capacità di “parlare” della luce, è quella che più si avvicina alla natura profonda di cui, credo, siamo fatti. Ecco perché, ispirandomi al mondo naturale, nelle mie opere vi è qualcosa di classico, perché il classico, in ogni tempo, è stata una ricerca ed un tentare di riprodurre, gli equilibri e le vibrazioni della natura.
Quanto ha contato la tua formazione filosofica nel modo di dipingere?
Per me la pittura è una prosecuzione con mezzi più adeguati della mia ricerca filosofica. Come Marx, quando capì che l’essenza del mondo era l’economia, smise di fare il filosofo e si fece economista, così io, una volta capita che l’ essenza del mondo è materia e luce, e noi stessi ed i nostri pensieri più profondi altro non sono che materia e luce, ecco che mi sono dedicato alla pratica umana che più si avvicina alla materia ed alla luce: la pittura. Materia e luce che poi fanno tutt’uno, come cerco di sottolineare in quasi tutti i miei lavori. La luce non è qualcosa di immateriale che avvolge la materia, non è uno spirito, ma è la materia stessa in determinate conformazioni, e lo spirito stesso, non è un al di là immateriale, ma la materia nella sua più consapevole manifestazione.

Nino D'Amore: l'arte come rigurgito e ripensamento porta alla scoperta delle origini sociali del dolore e del nulla.


In una piovosa serata di fine inverno ho avuto il piacere di fare visita per un caffè a Nino D'Amore, a casa sua.
L' intenzione era di fare una videointervista a lui in quanto artista e a Valeria Ferronetti in quanto curatrice della sua mostra dell' anno scorso, Primigenia. Ma arrivati nell'accogliente cucina di Nino, non sono riuscito a trasformarla in un set di riprese, perché, per fortuna, la realtà ha avuto la meglio sul mio desiderio di virtualizzazione. Abbiamo bevuto del buonissimo vino fragolino, mangiato un insuperabile spaghettata di Patrizia e scambiate tante bellissime parole sui lavori di Nino, sull'arte, sul mondo...
 Appena arrivati infatti, Nino è andato di à ed ha preso i suoi ultimi lavori, del tutto inediti. Era proprio per mostrare per la prima volta questi nuovi lavori che aveva organizzato il piccolo ritrovo: me, Valeria, Antonio. L' esperienza estetica è stata così coinvolgente, che è passata in secondo piano ogni progetto di intervista ordinata. Dall' ammirazione dei lavori, naturalmenete Nino ha cominciato a raccontarceli, poi a fare confronti con la produzione precedente, etc.

Subito ci ha raccontato della sua concezione dell'arte come rigurgito. L' arte, quella vera, quella fatta perché rapiti da un bisogno insopprimibile di esprimersi, e non quella fatta in ragione di mode e tendenze di mercato, è come un rigurgito: un gettare fuori le cose nascoste, intime, anche spiacevoli, e non riuscire a contenere e controllare questo flusso liberatorio.

Ed ecco pararci avanti un opera davvero emblematica in tal senso: la foto di Nino da ragazzo, dal bellissimo aspetto, che guarda ottimistico e sorridente verso l'alto. Il centro della figura è però quasi oscurato da una lunga macchia nera, rigurgitata dall'interiorità dell' autore, un fumo oscuro dalle sembianze di un mostro. Anche questo mostro ha il viso rivolto verso l'alto, ma la sua è una posa di dolore profondo e disperazione. E' la natura primigenia, oscura e dolorosa, che è a fondo e prima delle figure.

Seguono una serie di lavori con lo stesso tema, in cui però la figura diventa più astratta, sempre più ricoperta da vari strati di pittura dalle tonalità non più nere ma di un grigio chiaro tendente al violetto, un neutro silenzioso che sembra inghiottire ogni luce ed ogni rumore che tenta di distinguervisi. Ed ecco emergere il secondo tratto distintivo, dopo il rigurgito, della pittura di Nino: il ripensamento. Dopo che ha rigurgitato senza freni ed inibizioni la sua intimità sulla tela, il maestro non si accontenta, e non si dà pace: sente il bisogno di ritornare su quei gesti iniziali e comincia un lungo e tormentato lavoro di affinamento, in più fasi e in più strati. La sua pittura è rigurgito ed istinto, ma bilanciato dal lungo lavorio di scavo, rimeditazione, rifacimento, in cui la ricerca pittorica richiama in causa l' esperienza pittorica e la razionalità.

Il questo lavoro di ricerca e riflessione sui dolori rigurgitati sulla tela, mi è parso di cogliere il tratto distintivo di questa sua nuova produzione rispetto a quella presentata a Primigenia.
In questo lavoro di rimeditazione intorno al dolore ed al nulla primigenio, Nino fa una scoperta: il dolore ed il nulla esistenziale sono sì primigeni, ma non sono un fatto metafisico, imputabile all'ordine eterno del cosmo, bensì una produzione sociale.
L' ultima opera che ci mostra è un epifania dell' origine sociale del dolore e del nulla.
Quella sagoma mostruosa uscita dalla sua interiorità, si moltiplica in maniera seriale fino a coprire ogni spazio della tela, si svuota, da nera diventa bianca, o meglio, il grigio azzurrino, quel colore neutro che tutto avvolge ed inghiotte ogni differenza nella sua uniformità. Queste sagome sembrano uscire da macchie nere che alludono a capannoni industriali. 

Il nulla è una produzione umana.  E' l' organizzazione sociale, disumana ed innaturale che crea  individui mostruosi, massificati e vuoti  Grande coraggio di un artista che è riuscito a scavare più a fondo della sua precedente ricerca, che sembrava già abissale. Grande ricerca che svelando la natura umana del vuoto e del nulla, getta una luce di speranza. La tonalità si rischiara e dal nero si passa al grigio illuminato dai riverberi violetti del cielo!

Ciro D'Alessio



lunedì 2 febbraio 2015

Del mio fantastico apprendistato pittorico.

.

Della natura primigenia ed il segreto delle macchie azzurre e violette nei primi piani.
Un giorno di sole terso ed aria fresca, andai a dipingere all'aperto col mio maestro ed ebbi occasione di fare nuove e per me fondamentali scoperte sulla natura intima della pittura, della musica, della bellezza e dell' universo intero.
Ovviamente il mio cervello non riuscì a digerire tanta sovrabbondanza di input in una sola volta e, come al solito, andò in tilt e si ritrovò in preda ad una meravigliosa confusione. Solo con gli anni, col duro lavoro, la pratica, la riflessione, tanto studio, e ritornando spesso a rimeditare su quella giornata così intensa, esso poi è riuscito ad afferrare, credo, qualcosa.
Era passato qualche anno da quando eravamo andati a dipingere i cavoli, ed ebbi quella magnifica lezione sul valore delle cose, sui simboli e sul loro rapporto, etc.
Adesso la ricerca del maestro non si concentrava sulle cose, ma su un qualcosa di indefinito, un' energia, una sensazione, non saprei, un qualcosa di indefinito che lui diceva precedere ed essere più primitivo delle cose. Un qualcosa di primigenio.
Perché andasse ancora a dipingere per i campi, quando non dipingeva più cavoli, ne alberi, né colline né mare, non mi era molto chiaro. Perché tanta fatica per fare delle macchie? Perché non farle nel suo comodo e luminoso studio, ascoltando buona musica, sorbendo caffè ogni tanto, sigari, io, non lui, andato un po' sui socialnetwork? :)
"Non si tratta mica di dipingere la cosa astratta dalla natura, come potrebbe essere una natura morta, un fiore o un frutto sottratti al loro stelo ed al loro albero, al loro campo ed alla loro luce, non si tratta neanche di dipingere un simbolo, che segue analoghi, anche se più spinti processi di astrazione.  Quello che cerchiamo- parlava al plurale considerandomi completamente coinvolto nella sua ricerca, come fossimo un team- è la cosa prima della natura, o meglio, la natura prima delle cose: quel qualcosa della natura che va al di là delle cose e le sottende tutte, se mai vi dovesse essere... Non quindi andare in direzione dell' astrazione, che è un movimento post-rem, un impoverimento della cosa, che prima viene sottratta al suo ambiente, poi ridotta a immagine, e spogliata della sua materia, poi a contorno e privata del suo colore, poi a simbolo, quindi a mera funzione mentale, quando non c' è più molto da sottrarre per arrivare al nulla...
Non è il vuoto che cerchiamo, ma il pieno, non il buio della mente, ma la luce albeggiante dell epifania del reale, il mistero della natura generatrice. Per trovare le sue tracce dobbiamo ovviamente non solo stare in mezzo alla natura, ma cercare di viverla, di sintonizzarci con le sue onde profonde.."
Grande perplessità ovviamente sul mio viso.  Annuivo fingendo di comprendere, in realtà le parole le comprendevo. Come si concatenavano tra di loro non mi era del tutto chiaro. sigh. Nel frattempo aprivamo i cavalletti, prendevamo i pigmenti e i tubetti di colore, l'olio di lino col suo profumo grasso ma naturale che giocava a confondersi ed a distinguersi dai profumi della primissima primavera nell'aria frizzante e fresca. Non usavamo diluenti né acque ragie, pennelli ormai non ne usavamo più, almeno non con l'olio, solo spatola, e la ripulivamo con un semplice straccio, a volte anche con un po' di carta da cucina.
Il mio apprendistato funzionava così, io dipingevo per i fatti miei, il maestro per i suoi. Solo alla fine vedevamo i nostri reciproci risultati.
E così mi misi a dipingere questo campicello in parte assolato, in parte ombreggiato, cercando di mettere a punto tutto quel che sapevo della pittura, cercando di far rivivere sulla tela, tramite la pasta colorata, quel caldo dei gialli, quel fresco degli azzurri, la delicatezza delle ombre. Molta attenzione prestavo ormai a mettere i colori in scala cromatica che andava dagli azzurri e violetti più lontani, ai rossi e gialli più vicini. Ritenevo che la bellezza fosse  lì fuori, e mi impegnavo a coglierla, non usavo colori esageratamente forti, perché non mi sembrava che vi fossero fuori. Tutto era così straordinariamente accordato nei colori natura, tutto così in armonia col resto, nulla che volesse «far parte a sé» ed isolarsi e mettersi a dispetto, in dissonanza col tutto. Mi sembrava davvero l'immagine del paradiso. Se solo la stessa armonia si riuscisse a realizzarla anche tra gli uomini! E così feci il mio quadretto. I primi piani li chiusi, più che con gialli e rossi, che non vedevo in natura, con terre di siena ed ocre, colori caldi, ma più tenui, più vicini alla delicatezza della natura.
Per tentare di cogliere la natura primigenia, avevo cercato di dar un po' di movimento alle
cose: movimento e illusione dello scorrere del tempo. Non è il movimento quel fiume inesorabile che trascina con sé tutto,  quel magma dal quale le cose nascono, se ne distaccano per un attimo venendo a galla, per poi ridisciogliersi in esso?
Quindi sfumature, nebbioline, vibrazioni cromatiche.
Soddisfatto mi misi a ripulire le spatole e ad aspettare che il  maestro finisse il suo per confrontarceli. Un po' di curiosità mista ad ansia.
«Ho colto la natura primigenia, maestro?»
«Forse sì, ci hai provato almeno. Guarda come ci ho provato io». E mi mostrò la sua tela.
Nulla che sembrasse un albero, nulla che sembrasse un ombra, né cielo, né fiori o erbe, non tronchi. Solo macchie informi, nessun rametto, ed io che mi ero affaticato a tracciarli e poi sfumarli, nessuna sfumatura, eppure tutto si muoveva in quel dipinto, in secondo piano della macchie azzurre e viola, che corrispondevano al mio cielo, poi qualcosa di scuro, immagino le creste ombrose degli alberi, e poi da lì in giù un rapidissimo crescendo verso i primi piani di rossi e gialli, man mano sempre più forti. Il dipinto era complessivamente più scuro del mio, questo, capii poi, consentiva al maestro di usare i gialli ed i rossi forti in funzione di luce e di poterli calare nella composizione squillando, ma non stonando.
«Le trombe dorate della solarità»  non poteva non venirmi in mente il celebre verso conclusivo della canzone di Montale.
«Maestro è riuscito a cogliere la natura primigenia delle cose in questo dipinto?»
«Non so, ma ci ho provato. E la strada che ho preso per provarci è un po' diversa dalla tua.
Tu hai rappresentato il paesaggio con i suoi rami, le sue nubi, i suoi fiori illuminati e le loro ombre, io ho cercato di cogliere ciò che mi trasmetteva vibrazioni, ciò che mi piaceva di tutto questo, omettendo le forme, come puoi vedere le luci ci sono lo stesso, più forti, perché meno legate al loro ruolo descrittivo, le ombre ci sono, soprattutto ci sono i passaggi intermedi, le mezze tinte, quelle che legano il tutto e danno armonia. Ho pensato che queste onde cromatiche che ci provengono dal paesaggio siano il mistero a fondo della natura primigenia. Natura primigenia comune a noi ed a loro e quindi per noi generatrice di quel piacere che starebbe nel fondo del il mistero della bellezza. Ovviamente potrei sbagliarmi, ma questo ho provato a fare».   «Ho pensato che forse quando la nostra natura profonda incontra la natura profonda di queste cose, le rispettive onde cominciano a mettersi in rapporti armonici tra di loro, non ad accavallarsi in maniera confusa, ma a risuonare insieme, e questa potrebbe essere forse la natura del mistero della bellezza.  Queste onde ci sono date dal paesaggio, ma anche dai colori, e con i colori, anzi, possiamo quasi estrarre la bellezza, il motivo della bellezza del paesaggio e riproporlo. Potrei farti provare la sensazione di pace e di bellezza che proveresti davanti al paesaggio, presentandoti solo alcune macchie, suggeritimi da impulsi che ho preso dal paesaggio ed ho trasformato in colore.»
Sempre più confuso, annuivo, ma non capivo a fondo.
Poi mi misi a osservare alcune macchie azzurre e violette che stavano in primo piano nel suo dipinto, contrariamente alle regole della prospettiva atmosferica che così bene avevo apprese e che cercavo di mettere diligentemente in pratica. Eppure quelle macchie stavano da dio nel dipinto, ma non riuscivo a capire perché.
«Maestro, queste macchie?»
«Posso mettere un paio di spatolate, solo due, sul tuo dipinto?»
« Mah... certo, ne sarei onorato» in realtà ne ero umiliato, era come farsi dire che il mio lavoro andava corretto, ma non avevo il coraggio di dire no!
«Solo due tocchi leggeri, che ti aiuteranno a capire il mistero delle macchie azzurre e violette». Poi se non ti piace, cancelliamo e tutto ritorna come è.
Incredibile la sua capacità di concepire la pittura come un regno dove nulla è irreversibile. Nell'universo della pittura lui era Dio, poteva non solo creare ma anche cancellare ogni errore e ritornare al punto di partenza, andare al di là delle leggi del tempo e dell' entropia. Poteva ritornare dalla frittata all'uovo. Questo mi riempiva sempre di stupore. Per me ogni passo era meditato e sofferto come si medita e si soffre quando ci si accinge a qualcosa di cruciale ed irreversibile, da cui non si può più tornare indietro. Io non sapevo rifare l' uovo dalla frittata, nella pittura non ero Dio, ma solo un uomo, non avevo raggiunto quel grado di libertà e sicurezza estrema, quella giocosità e leggerezza da danzatore del mio maestro.
Afferrò quindi la spatola, andò sulla mia stessa tavolozza non ancora ripulita, e mescolò tra di loro alcuni impasti di colore che vi erano rimasti e ne fece un grigio caldo, anche un po' sporco direi. Poi vi aggiunse un po' di lacca rossastra ed un po' di blu oltremare e quel grigio si rischiarì e ripulì come quando il cielo rasserena dopo il grigiore cupo di un temporale. Raccolse con la spatola e con grande leggerezza diede un colpo legger di quest' azzurrino sul tronco del mio albero. Ritornò rapidamente alla mescola, vi aggiunse ancora un po' di lacca ed un pochino di celeste e diede un a spatolata decisa in primo piano, tra le ombre e le luci del campo fiorito.
«Bene, ecco fatto, dimmi se ti piace»
In effetti mi piaceva molto di più.
« Adesso il tuo paesaggio respira ed è concluso»

Ed era così, sempre più pieno di stupore ma anche di angoscia per quel tantissimo che ancora non sapevo della pittura.

«Vedi, tu cominci a dipingere partendo dal cielo, dal suo violetto, poi man mano te ne vieni avanti aggiungendo nella mescola iniziale varie quantità di gialli e rossi, così come ti ho insegnato. E fai benissimo, ma ogni tanto, devi ricordare a chi contempla il tuo dipinto, dove è cominciato tutto, e quindi riproporre, in maniera non uguale, ma sempre diversa, la tonalità fondamentale da cui sei partito, ed infine, nel primissimo paiano, insieme ai colori più squillanti, deve ritornare anche questo tono di fondo.»
Solo così farai un opera che davvero darà piacere, no so perché questa ripetizione dia piacere, ma così è nella nostra musica, dove la nota tonale  apre la composizione, ritorna, viene richiamata dalla sua dominante con cui sta in rapporto di armonia e dalla sua sensibile ed infine chiude la composizione. Così è la bellezza in musica e così è nella pittura e forse così è la bellezza dell' universo. Forse questo movimento che ritorna su sé stesso, mai uguale a prima, questa spirale cosmica, è il modo fondamentale di muoversi e funzionare dell' universo. Vi sono studiosi che lo affermano.  Io non so, ma potrebbe essere ed in qualche modo lo sento»
E così da allora anche io cominciai a mettere macchie azzurre e violette, sempre diverse, nei piani intermedi e nei primi piani.
Ciro D'Alessio